“Camerata, camerata, l’uncino!”

“Camerata, camerata, l’uncino!”

Che a mio nonno piacesse scherzare, anche pesantemente, era cosa risaputa. Aveva perfino fatto stampare delle cartoline in cui si era finto brigante – peraltro piuttosto ben curato e con abiti da signorino, piuttosto che da frequentatore di macchie – mentre due suoi commilitoni lo catturavano. 

Tuttavia, quello che combinò ad inizio estate del 1944 con l’esercito tedesco in ritirata, rasentò la follia.

Il comando della Wehrmacht che aveva scelto la casa dei miei nonni come quartier generale aveva da poco finito di fare i bagagli, tolto le insegne dall’esterno della casa e stava risalendo la vecchia statale con il resto delle truppe. E questo significava guai grossi per i miei, visto che l’immunità di cui avevano goduto fino a quel momento si era dissolta con l’ultimo ufficiale tedesco che aveva varcato il cancello.

Come in ogni ritirata, quello era uno dei momenti peggiori per gli occupati. Le retroguardie dell’esercito si staccavano a gruppi e si infilavano in ogni luogo dove poter trovare cibo e qualsiasi altra cosa che potessero razziare. Oddio, non che ai soldati tedeschi andasse meglio, perché non furono isolati i casi in cui gruppi di partigiani presero a mitragliate qualche soldato che si era staccato dalla fila, quasi certi che non avrebbero ricevuto rappresaglia.

I miei zii raccontano che gli ufficiali della Wehrmacht avevano da poco lasciato la casa, quando alcuni soldati cominciarono a scendere lungo il vialetto. Non entrarono dal portone, ma girarono intorno all’edificio e scesero in cantina, sapevano che cosa cercare. Fortunatamente il maiale era stato già portato nel bosco, dove si era nascosto anche mio zio Mario, che pur non essendo maggiorenne, rischiava la deportazione.

Qualche minuto dopo, da dentro la casa videro passare i soldati che portavano con loro il poco che era rimasto, qualche salame, una lonza, un mezzo prosciutto.

D’un tratto, mio nonno, chiuso in casa con gli altri, appoggiò le mani al vetro della finestra e bofonchiò:”No, questo no”. Un attimo dopo era sul vialetto di casa che correva incontro ai soldati tedeschi, con mia nonna, scattata un attimo dopo ad urlargli:”No, Peppino, no!”.

Alle urla, i soldati si voltarono e dalla casa sentirono alcune parole in tedesco, unite a quelle di mio nonno:”Camerata! Camerata! L’uncino!”. Il soldato con il prosciutto in spalla, che aveva spianato il fucile contro mio nonno, esplose in una risata; staccò l’uncino dal prosciutto e lo porse a mio nonno. Poi si voltò ed entrambi ripresero la loro strada.

Nessuno seppe mai se la richiesta di mio nonno fosse stata suggerita dalla canna del fucile o dalla sua solita follia goliardica. I miei zii raccontano che appena tornato in casa non fosse per niente agitato:”Era l’uncino migliore che avevamo.” E lo portò di sotto.