“Non è giusto!”

“Non è giusto!”

ii…allorché accertamento identità personale dei responsabili nonest possibile rimane ai comandanti il diritto et il dovere di estrarre a sorte tra tutti gli indiziati alcuni militari et punirli con la pena di morte.

Non ho conosciuto 3 dei miei 4 nonni, i miei genitori erano i loro due ultimi figli, i tempi poi si allungarono ulteriormente, perché a mio padre, come ad ogni carabiniere, non era permesso di sposarsi prima dei 30 anni.

Va da sé che le storie che i nonni raccontano ai nipoti, nel mio caso subirono la mediazione di zii e genitori.  Una di queste, mi venne raccontata quando avevo una decina d’anni, e mi sembrò subito così poco credibile da rimanermi in mente fino a quando non cominciai a capire come funzionano le cose a questo mondo. Qualche giorno fa, poi, quando ho trovato il pezzo di carta che leggete sotto il titolo, ho avuto la conferma che quella che mi sembrava una follia, non era altro che quello che viviamo ogni giorno, anche se i nostri  momenti di vita sono sicuramente meno cruenti.

La storia raccontava di mio nonno, vice brigadiere dei Reali Carabinieri, a cui nel gennaio del 1917 fu affidato il comando del carcere militare di guerra del 7° Corpo d’Armata, corpo che faceva parte della 3ª Armata che operava nel basso Friuli, l’Armata del Duca Invitto, Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta. Durante la Prima Guerra Mondiale, i Carabinieri si trovarono spesso a saltare fuori dalle trincee e buttarsi addosso agli austro-ungarici, ma il più delle volte il loro compito era di ordine militare, svolgevano funzione di polizia militare. Tradotto, gestivano carceri, operavano le traduzioni di rivoltosi e renitenti, arresti, fucilazioni e in più di un episodio si trovarono ad ubbidire a ordini che prevedevano di sparare direttamente a chi si ritirava da un assalto: difficile trovare un lavoro più schifoso.

Non posso sapere se mio nonno abbia ubbidito ad ordini di questo tipo; so, per certo, che ebbe molto a che fare con detenuti e carceri.  Al tempo, sulla linea del fronte, la nozione di ‘carcere’ era piuttosto fluida, visto che i luoghi di custodia dovevano essere spostati perché bombardati dagli austro-ungarici o perché si riempivano all’inverosimile di insubordinati e disertori, modi poco carini di chiamare chi aveva voglia di vivere. Quindi, un carcere vero e proprio non esisteva; esistevano luoghi, caserme o grandi edifici, che venivano scelti per esigenze momentanee di detenzione.

La storia raccontava anche come, mio nonno, in quelle sue funzioni, fosse stato costretto a comandare un plotone di esecuzione per una fucilazione di alcuni rivoltosi. Diceva anche che quei soldati erano del Sud, mio nonno li aveva riconosciuti appena li aveva sentiti parlare, perché era stato mandato a Messina qualche anno prima, a tirare fuori gente dalle macerie del terremoto.

Molti di quei soldati, non avevano nulla a che fare con quella rivolta, la unica loro colpa era che il numero di matricola estratto per essere messo al muro fosse il loro

Raccontava pure che per quanto avesse cercato di sottrarsi a quel compito odioso, sapeva che se non lo avesse fatto lui sarebbe toccato a qualcun altro. In ogni caso le fece di tutte: cercò di prendere tempo, di far presente che quei poveri ragazzi che a stento parlavano qualche parola di italiano, spediti a combattere una guerra che non sapevano neanche contro chi stessero combattendo, si misero ad implorarlo di non ucciderli, che non potevano essere ammazzati proprio da coloro al fianco dei quali combattevano: che non era giusto. Già… ‘che non era giusto’.

La storia finiva con mio nonno che chiedeva di essere trasferito, con lo scontato diniego rafforzato da quel ‘è un ordine’ che non ha nessun legame con il buonsenso, e la promessa, fattagli dal suo diretto superiore, che avrebbe fatto di tutto per non farlo promuovere a brigadiere. 

Mio nonno raccontava di quella fucilazione appena venisse fuori la parola “guerra” in una conversazione; non se ne liberò mai più. 

A questa storia io non credetti mai del tutto; no, non che non avessi fiducia in mio zio, no; il fatto è che, come tutte le storie di guerra, la ritenevo accresciuta un po’ dalla felicità di essere lì a raccontarla; e un po’ dallo stupore che si vuole suscitare in chi Le ascoltava.

Poi la lettera. È una lettera che mio nonno scrisse al Comando dell’Arma, di quelle che servono per richiedere che la promozione che aveva conseguito sul campo gli fosse riconosciuta con qualche mese di anticipo; brigadiere c’era poi diventato comunque, ma la promessa del tenente era riuscita a portargli via qualche mese di stipendio: insomma, tutto per tirare su qualche soldino. Alla  lettera c’è allegato un dattiloscritto con  il suo stato di servizio durante la guerra, le vicende di quell’anno e mezzo, i nomi di coloro che potevano testimoniare che, lui, sì, aveva fatto il suo dovere, più del suo dovere.

Un punto della lettera mi ha fatto venire in mente la storia della Brigata Catanzaro, ma solo per assonanza temporale, visto che nella lettera si parla dell’estate del 1917 e la rivolta – e conseguente decimazione – della ‘Catanzaro’ avvenne in quel periodo. Questo episodio è uno dei più tragici della Prima Guerra Mondiale, ne trovate la descrizione sul web in decine di siti. Per tagliare corto, i ragazzi della ‘Catanzaro’, tutti provenienti dal Sud Italia, furono costretti a turni massacranti di fronte e tutti con perdite rilevanti. Ne venne fuori una rivolta proprio nel momento in cui l’ennesimo turno di riposo fu decurtato. Molti di loro si ribellarono, spararono sui compagni e sui carabinieri che li andavano a prendere e furono passati immediatamente per le armi. Quelli che rimasero, furono rispediti al fronte scortati proprio dai carabinieri. Nel tragitto, alcuni di loro cominciarono a gettare dai mezzi su cui si trovavano i caricatori dei fucili, in segno di protesta. Appena i comandi se ne accorsero fecero fermare il convoglio e non potendo ottenere i nomi di chi aveva fatto quel gesto, procedettero alla decimazione della brigata: uno ogni 10 fu portato a Saciletto, dove si trovava in quel momento il carcere del 7° Corpo d’Armata, e lì, fucilati immediatamente.

Porta tutto. In quei giorni mio nonno si trovava a Saciletto, probabilmente ebbe a che fare davvero con quel plotone di esecuzione, visto che ai carabinieri era devoluto il compito delle fucilazioni, oltre che il mantenimento dell’ordine militare e civile.

Che mio nonno abbia avuto parte o meno nella vicenda dei ragazzi della ‘Catanzaro’, rimane il fatto che anche nella Grande Guerra non ci siamo fatti mancare una buona dose di nostrana idiozia.

 

Quella sassata di 106 anni fa.

Quella sassata di 106 anni fa.

Nella settimana tra il 7 e 14 giugno del 1914, Ancona fece da detonatore alla Settimana Rossa, uno dei momenti storici più importanti degli inizi del secolo scorso.

Fu una settimana di sangue e di fuoco, la cui scintilla fu causata dall’uccisione da parte dei Carabinieri di tre giovani che uscivano dalla riunione di anarchici, socialisti e repubblicani della Villa Rossa. I fatti sono storia, basta cercare sul web. Riassumendo, per molte settimane la rivolta si allargò a tutta Italia, con agitazioni e scioperi soprattutto nelle Marche e in Emilia Romagna. I disordini furono tali che si fu davvero sull’orlo di una insurrezione generale, con il paese a cavallo tra una guerra, in Libia, che era ufficialmente terminata ma che non lo era poi completamente; ed un’altra, questa forse più terrificante – se l’orrore di una guerra si potesse graduare, di cui si stavano per sentire i primi colpi. Che cosa c’entrano i moti rivoluzionari della Settimana Rossa con una casa di tufo costruita 20 anni dopo in mezzo alle montagne dell’ascolano? C’entrano il pezzo di carta che vedete in cima a questo post.

Come ogni serio moto rivoluzionario, il bersaglio principale era l’ordine costituito che all’epoca faceva rima con preti e carabinieri.  

Nel giugno del 1914 mio nonno aveva da poco compiuto 30 anni ed era stato trasferito da circa 3 mesi dall’Abruzzo alla Legione Carabinieri di Ancona. Uno dei principali compiti affidati ai Carabinieri, oltre a quello non proprio encomiabile di prendere a manganellate e pistolettate anarchici e socialisti, era quello di proteggere coloro che partecipavano alle funzioni religiose perché i disordini, già prima del giugno di quell’anno, si stavano espandendo anche ai luoghi di  culto. 

Mio nonno fu inviato in una frazione di Ancona, che si chiama Pinocchio, proprio ad evitare che gruppi ‘di giovinastri’ disturbassero le funzioni religiose. Fu lì, come c’è scritto nel verbale che trovate qui a fianco, che qualcuno dei giovinastri pensò bene di tirare una bella sassata a mio nonno. 

Poteva essere un’altra chiesa, in una qualsiasi altra località di Marche o di Abruzzo ma fu proprio la Chiesa di San Michele Arcangelo, nel quartiere Pinocchio di Ancona. In quel quartiere, 54 anni dopo, mio padre prese in affitto una casa e in quella Chiesa fui battezzato l’anno successivo; e non c’era alcun motivo per cui decine di anni dopo mi trovassi a passare negli stessi luoghi dove era passato per un solo attimo, per caso, mio nonno, lasciandone una traccia. 

Certo, che prendere un encomio per una sassata…vabbè, va… 

“Camerata, camerata, l’uncino!”

“Camerata, camerata, l’uncino!”

Che a mio nonno piacesse scherzare, anche pesantemente, era cosa risaputa. Aveva perfino fatto stampare delle cartoline in cui si era finto brigante – peraltro piuttosto ben curato e con abiti da signorino, piuttosto che da frequentatore di macchie – mentre due suoi commilitoni lo catturavano. 

Tuttavia, quello che combinò ad inizio estate del 1944 con l’esercito tedesco in ritirata, rasentò la follia.

Il comando della Wehrmacht che aveva scelto la casa dei miei nonni come quartier generale aveva da poco finito di fare i bagagli, tolto le insegne dall’esterno della casa e stava risalendo la vecchia statale con il resto delle truppe. E questo significava guai grossi per i miei, visto che l’immunità di cui avevano goduto fino a quel momento si era dissolta con l’ultimo ufficiale tedesco che aveva varcato il cancello.

Come in ogni ritirata, quello era uno dei momenti peggiori per gli occupati. Le retroguardie dell’esercito si staccavano a gruppi e si infilavano in ogni luogo dove poter trovare cibo e qualsiasi altra cosa che potessero razziare. Oddio, non che ai soldati tedeschi andasse meglio, perché non furono isolati i casi in cui gruppi di partigiani presero a mitragliate qualche soldato che si era staccato dalla fila, quasi certi che non avrebbero ricevuto rappresaglia.

I miei zii raccontano che gli ufficiali della Wehrmacht avevano da poco lasciato la casa, quando alcuni soldati cominciarono a scendere lungo il vialetto. Non entrarono dal portone, ma girarono intorno all’edificio e scesero in cantina, sapevano che cosa cercare. Fortunatamente il maiale era stato già portato nel bosco, dove si era nascosto anche mio zio Mario, che pur non essendo maggiorenne, rischiava la deportazione.

Qualche minuto dopo, da dentro la casa videro passare i soldati che portavano con loro il poco che era rimasto, qualche salame, una lonza, un mezzo prosciutto.

D’un tratto, mio nonno, chiuso in casa con gli altri, appoggiò le mani al vetro della finestra e bofonchiò:”No, questo no”. Un attimo dopo era sul vialetto di casa che correva incontro ai soldati tedeschi, con mia nonna, scattata un attimo dopo ad urlargli:”No, Peppino, no!”.

Alle urla, i soldati si voltarono e dalla casa sentirono alcune parole in tedesco, unite a quelle di mio nonno:”Camerata! Camerata! L’uncino!”. Il soldato con il prosciutto in spalla, che aveva spianato il fucile contro mio nonno, esplose in una risata; staccò l’uncino dal prosciutto e lo porse a mio nonno. Poi si voltò ed entrambi ripresero la loro strada.

Nessuno seppe mai se la richiesta di mio nonno fosse stata suggerita dalla canna del fucile o dalla sua solita follia goliardica. I miei zii raccontano che appena tornato in casa non fosse per niente agitato:”Era l’uncino migliore che avevamo.” E lo portò di sotto.