“Che altro poteva fare?”

“Che altro poteva fare?”

Erano i primissimi anni ’80, forse il 1981 o il 1982, non ricordo la Casa sul Ponte era quasi terminata. C’erano da fare piccoli ritocchi, riempirla con qualche mobile, un po’ di pittura e sarebbe tornata a vivere. I lavori di ristrutturazione s’erano prolungati perché questa, dove vivo oggi, era la vecchia casa dei miei nonni e la utilizzavamo solo come seconda casa, un mezzo accampamento in cui sentirsi liberi di fare tutto, in mezzo a tanto verde.

La striscia

Tra le cose che mancavano c’era la sistemazione di un piccolo giardino davanti, di una striscia di terra laterale e degli spazi sul retro che danno sul fiume. Un paio di giornate di zappa e qualche carriola di terra, tutto qui, roba che mio padre si sarebbe fatto nella metà del tempo; ma… che “tuo zio Secondo si fa in due ore”.   

Mio zio Secondo, non era tipo da chiacchiere. Era uno i quei tipi che risolveva le cose con il lavoro: gli trovavi qualcosa da fare e lui la faceva. E gli riusciva meglio se c’era da sputare sangue, tirare su sacchi da un quintale, zappare un paio di tavole di terra, trascinare tronchi spinosi di acacia da una parte all’altra di un bosco. Era alto quasi un metro e 90 – dell’altezza non gli fregava niente, quindi non se l’era mai misurata –  e non gli trovavi un grammo di grasso addosso neanche se glielo cavavi con le pinze; muscoli e basta. Come tutti quelli grossi era stato condannato a vivere da grosso: se servivano due braccia, cercavano le sue. Che fosse un vicino, il capo al lavoro, la moglie, o qualcun altro di famiglia, Secondo c’era. Sempre. La misura del cuore che diceva ‘Sì’ ad una richiesta di aiuto era la stessa dell’organo che spingeva la macchina a compiere il soccorso: ‘grossa’.

Saluti speciali

Accennavo al fatto che parlasse poco, e poco era solito parlare pure mio padre. Poche erano pure le smancerie che si facevano l’un l’altro quando s’incontravano. Raramente salivamo a Colli di Funti, dove viveva mio zio Secondo, ma in genere l’incontro tra lui e mio padre era più simile a quello di due tori che si incrociavano in una strada di campagna. Si accorgevano da lontano l’uno dell’altro, si bloccavano, cominciavano a buttare fumo dalle narici, poi acceleravano il passo e finivano per salutarsi con pacche sulle spalle o abbracci da boa constrictor. Bofonchiavano qualche suono gutturale in dialetto (che poi mio padre quasi non capiva più) e si sedevano in cantina, spesso a bere della grappa alla ruta, (rigorosamente e orgogliosamente distillata contro ogni legge dello stato) che avrebbe perforato anche un foglio d’acciaio. Si volevano un bene dell’anima, ma lo riuscivi ad intravedere solo da qualche sguardo, perché per il resto quegli incontri erano roba da lotta greco-romana: cazzotti, sberle, manate, qualche ‘torturata’ (da ‘tortòre’, che è tutto meno che un gentile volatile) e parecchie prese a tradimento alle gambe, fatte per sollevare l’avversario e sbatterlo su qualche muro rasposo di cemento a grana grossa che non sarebbe mai stato intonacato.

Insomma quel: “tuo zio Secondo lo fa in due ore”, era solo una scusa per rivedersi. Macchina, a casa di mio zio, la solita grossolana sequela di manifestazioni d’affetto, e poi via sul luogo dell’impresa.

Secondo e Giovanni

Nel frattempo la casa si era riempita. Era arrivata mia zia, la sorella di mia madre con suo marito, Giovanni, le mie due cugine e non so chi altro, ma c’era parecchio movimento. Mio zio Giovanni aveva in comune con mio zio Secondo la bontà d’animo, ma per tutto il resto non ho mai veduto due uomini più diversi. Giovanni, esile ma deciso, raffinato, con una continua voglia di scambiare quattro chiacchiere con chiunque gli capitasse a tiro, una gentilezza nei modi che stava meglio in una sala da tè che una valle di di montagna, comunque sempre pronto a dare una mano dove ce ne fosse bisogno; Secondo, quella roba che sapete già.

I miei due zii si conoscevano, ovviamente, ma si erano visti non più di una decine volte. Vivevano in mondi e modi separati: i 25 km che li dividevano erano tutte curve e strade in salita che decuplicavano le distanze, in tempi e luoghi in cui anche avere patente e automobile non era scontato.

Il fattaccio

“Eccoci.” Feci quasi a presentare l’inopinato spettacolo che si sarebbe svolto di lì a poco. Secondo salutò tutti con un sorriso rumoroso e si indirizzò subito verso un bidente appoggiato su un muretto. Mio padre prese il suo con l’intento di aiutarlo ma sentì un ruggito che lo bloccò:”Lèvati, faccio io, che è roba di chi sa fare”. L’uomo-aratro prese il bidente e comincio ad menare la terra. Tirava colpi da 30 cm di profondità, rivoltava l’arenaria non troppo indurita e se la lasciava alle spalle. Le zolle schizzavano all’indietro di mezzo metro e ricadevano dove era previsto che dovessero ricadere, terrorizzate pure loro dalla belluinità del gesto. Il rumore che faceva il bidente cozzando sulla terra era simile ad un tonfo sordo di un masso lanciato su una superficie morbida. Ora si potrebbe pensare che dopo i primi colpi, mio zio diradasse la frequenza a causa della difficoltà di mantenere il ritmo. In realtà succedeva il contrario: i primi colpi erano serviti per saggiare la resistenza dell’obiettivo; adesso, la cadenza stava aumentando in un crescendo lento ma inesorabile, tanto che le persone che stavano mangiucchiano e bevendo davanti la casa, dopo lo stupore dato dai primi colpi, cominciarono pian piano a fissare tutta la zona delle operazioni belliche come in attesa che il motore smettesse di funzionare per il troppo surriscaldamento. Macché, niente. Risultato: in pochi minuti, un quarto della striscia era andata.

Spinto da una maledetta e inopinata voglia di dare una mano, mio zio Giovanni si avvicinò alla striscia di terra dove era cominciato il dissodamento, raccolse un qualche attrezzo proporzionato alla sua misura e cominciò a smontare le zolle, pezzetto per pezzetto, al ritmo di una zolla ogni due metri di striscia arata. Non so davvero in che modo sia successo, ma Secondo si accorse che alle sue spalle stava succedendo qualcosa che non era previsto ma che soprattutto – e questa era la parte terrificante – non andava fatto. Mai. Emise un suono gutturale poco decifrabile, e poi successe quello che successe.

“Ma che stanno facendo dietro alle mie spalle? Come si permettono di ripassare sul pezzo di terra che ho zappato? Perché rompono le mie zolle, prima che io, dopo aver finito di rivoltare la terra, cominci a fresarla? Ma che stanno insinuando che io non faccia bene il mio lavoro?”

Dietro Secondo poteva esserci chiunque: un figlio, una figlia, il fratello, io o anche un bimbo di pochi anni. Ma se una cosa non andava fatta era zappare dove era stato zappato: era una dichiarazione di guerra. Di più, un’offesa all’integrità morale e professionale dello zappatore.

Ora, questo io non lo sapevo; se c’era qualcuno che poteva immaginare quanto fosse umiliante zappare dove era stato zappato, che poteva capire che genere di affronto si nascondesse dietro un gesto d’affetto, di  aiuto, quello poteva essere mio padre;  e infatti lo vidi rabbuiarsi e subito dopo scattare mio verso suo fratello. Ma non fece in tempo.

Secondo aveva già sollevato lo scalcinato bidone di tempera vuoto che stava riempendo con i sassi e le impurità che man mano saltavano fuori dal terreno, lo portò sopra la testa e lo scagliò verso Giovanni che stava ormai ad una quindicina di metri da dove era arrivata la furia scavatrice. Saranno stati una decina di chili di sassi e pietre che appena lasciarono il braccio dello zappatore infamato, si sparsero come bombe a grappolo verso l’aiutante.

Simultaneamente al lancio si udì un boato e poi solo il rumore delle pietre che cadevano in terra assieme al bidone. Mio zio Giovanni non fece neanche in tempo a capire che stesse succedendo, ma per sua fortuna non lo raggiunse neanche un sassolino. Lentamente si allontanò dalle ‘sue’ zolle che tornarono appannaggio di chi, zolle, le aveva rese.

Mio padre che intanto era arrivato dal lanciatore si senti dire dal fratello:”Non si rizappa sullo zappato”. Annuì e poi lo sentì dire:”Ma Secò, ma mica lo sapeva!”. La risposta non lasciò spazio a repliche:”Lo sapeva, lo sapeva.”

Ma la cosa che mi lasciò basito fu quello che successe poi.

In meno di un minuto, Secondo tornò a zappare. Tutti gli astanti, che s’erano immobilizzati in attesa di conoscere il punto d’impatto dei proiettili, tornarono a mangiucchiare e bere allegramente cosi come fecero mio padre e mio zio Giovanni; e tutti senza fare parola di quello che era successo. Io che non potevo credere a quello che avevo visto me ne ero tornato tra la piccola folla e mentre prendevo un pezzo di crostata e riempivo il bicchiere di spuma, sentì uno dei vecchi rivolgersi a mio padre e scrollando le spalle, dirgli:”Oh Pi’… d’altronde, che doveva fare Secondo? Gli stava zappettando dove aveva zappato.”

Zafferano come se piovesse

Zafferano come se piovesse

Zafferano come se piovesse…

In realtà di acqua non ce ne è proprio per nulla. Non piove – bene – da mesi se si escludono alcune giornate di settembre che sono state piuttosto bagnate.

Ma allo zafferano importa poco.

Abbiamo cominciato a raccogliere zafferano il 2 ottobre, proprio negli unici punti dove non avremmo mai pensato di vederlo fiorire, cioè sul versante Nord del terreno. Tra l’altro erano gli ultimi cormi impiantati.
Attualmente su circa 1.600 cormi destinati alla fioritura, abbiamo raccolto circa 7.000 fiori, e siamo più o meno a 60 grammi di prodotto. Questo è il primo anno che facciamo qualcosa che assomigli vagamente ad una produzione e quindi la soddisfazione è tanta. Avevamo già impostato un sito di e-commerce con la storia di questi cormi che, in una decina d’anni, da pochi pezzi sono diventati più di 2.000.

Adesso la sfida è quella di vedere in quanti cormi si trasformeranno i fiori.

Nel frattempo, un solo grido: “Regala zafferano!”

Abbiamo sfruttato le nostre professionalità e progettato anche queste scatoline in legno e ceramica che contengono le boccette di zafferano. È certamente la maniera migliore per fare un regalo bello, ma soprattutto buono; buono e profumato, oltre che salutare, come solo lo zafferano sa essere.

Regalare zafferano, allora! 😂

 

A passo di carica.

A passo di carica.

Di Nonna Rosa forse avete letto qui. Era un incrocio tra una brezza di montagna che ti accarezza il volto e un kurgan sarmata al galoppo, un po’ come molte donne (meglio, ‘femmine’) che popolavano le vallate dell’entroterra ascolano tra Castellano e Fluvione, luoghi dove i ‘maschi’ avevano funzioni sociali solo se erano in grado di spaccare la terra a colpi di bidente (anche questo, un attrezzo praticamente scomparso), fare legna e carbone, guidare un carro e gestire gli animali più grossi. Nonna Rosa (che poi non era mia nonna, ma mia bisnonna, anche se era chiamata da tutti noi così), era l’emblema di questo matriarcato di montagna, che vedeva le madri/suocere a capo di famiglie che contavano anche decine di poveri cristi. Non era un Potere concesso per qualche regola tramandata oralmente, o meglio, non era solo quello. Era Potere conquistato sul campo, a forza di tortorate e urla bestiali, ma anche tanta sapienza che consentiva di trovare sempre una soluzione per le questioni più complesse.

La quercia e il bimbo legato

Però adesso Nonna Rosa lasciamola un po’ lì; tornerà presto, e per il momento concentratevi su altro. Concentratevi su un’aia di montagna, una di quegli spazi immensi con una grande casa su un margine, un grande albero ad un altro margine (una quercia, in questo caso), una fontana, una cisterna o un abbeveratoio. Immaginate di essere in una bel pomeriggio di primavera avanzata, con il sole che comincia già a cuocere, ma che è ancora gradevole sulla pelle. E adesso pensate a due bambini, uno di una decina d’anni o poco più; l’altro della metà degli anni; e poi un uomo, sulla quarantina che sta finendo di legare alla grande quercia il bambino più grande, con una corda di canapa spessa un dito (roba da 3 o 4 anni di galera, oggi), e il bambino più piccolo che sta su monticello di terra, con una mano alla bocca che cerca di trattenere una risata che prorompe fragorosa a tratti, tra gli spazi lasciati dai primi denti da latte che se ne sono andati. Ecco, quell’uomo è mio nonno Felice, che sta legando alla quercia mio zio Secondo, con mio padre Giuseppe che si sbellica dal ridere, in cima a quel mucchio di terra.

Ora, poiché mio nonno era tutto fuorché un farabutto picchiatore, ma anzi, era famoso per non aver mai alzato un dito su nessuno dei figli, probabilmente per essere finito lì, mio zio Secondo ne doveva aver combinata una delle sue, ma una grossa tanto. E facciamo un gioco: quando leggerete di cosa si tratta, vi renderete conto di come la bontà abbia limiti che in questo caso, anche un santo, travalicherebbe senza neanche riflettere. Scommettiamo?

Serve partire un po’ da lontano, faccio veloce.

Non se ne può più.

Dopo aver finito le scuole elementari, in montagna, si andava dietro alle pecore. Andare dietro alle pecore significava portarle al pascolo la mattina, tenerle sempre sotto controllo (perché qualche pecora sovversiva nel gregge c’è sempre) e quindi guidarle lontano da dirupi e zone scoscese; poi evitare che qualche predatore, umano o animale, si facesse idee strane; infine ricondurre il gregge all’ovile. Anche se vi sembra un’attività piuttosto rilassante, mio padre raccontava come fosse la più grande rottura di scatole che potesse capitare ad un bambino: non potevi muoverti più di tanto, la maggior parte del tempo non sapevi che diavolo fare e finché il sole non scendeva in quel determinato punto a casa non potevi tornare. Se avevi un fratello minore che ancora non andava a scuola, poteva tenerti compagnia; ma di solito gli altri compagni di gioco o avevano la tua stessa età, e allora stavano facendo quello che stavi facendo tu; oppure erano più piccoli e allora erano a scuola.

E non era una responsabilità da poco, perché le pecore erano una risorsa  molto importante anche per chi non era pastore di professione: pecora significava agnelli, lana e latte e quindi, oltre a vestiti, significava ricotta e formaggio che, a quanto pare, erano piuttosto apprezzati giù in città. Insomma, pecora viene da pecus e da pecus viene pecunia: e ci siamo detti tutto.

Scatta Ribot

Però un bambino è sempre un bambino, lo è oggi così come lo era 90 anni fa; bambino non sarà sinonimo di ‘carogna’ in assoluto, ma in quel caso specifico, sì. Mio padre racconta che mio zio Secondo fosse smisuratamente forte e vivace fin da piccolo e 5 ore a guardare pecore, be’ era praticamente impossibile vedercelo. E infatti, fermo non ci stava. Mai. Neanche in quel  giorno di primavera inoltrata quando decise di fare il gioco che tante volte gli era stato detto di non fare. Prese la sua giubba, che già era stata del fratello più grande e chissà di chi altro, e la canotta di lana grezza, poi si mise all’opera. “Tu sta zitto, mi raccomando.”, fece mio zio a mio padre mentre faceva passare le maniche della giubba sotto la pancia della pecora più robusta (la chiamerò Alda, tanto per darle un nome)  e le annodava sopra la schiena. Salì a cavalcioni dell’animale e infilò tra pancia e giubba la canotta di lana grezza.  Mio padre ripeteva le ultime parole di mio zio prima dell’imponderabile. “Arrivo al fosso e torno indietro.”  Sì, perché cavalcare una pecora è un’attività codificata da secoli di pratica, quindi, è semplice controllarne il percorso, vero?

Fatto sta che mio zio strinse forte le maniche della giubba ed Alda scattò come una molla. Mio padre dice di non aver visto più Ribot e il suo fantino già qualche secondo dopo lo scatto.

Lana grezza.

Spiego in termini di fisica quantistica cosa succedeva in questi casi (perché non è un gioco che s’era inventato mio zio, era pratica comune). La pecora poteva sì sopportare una giubba legata delicatamente sotto la sua pancia, e anche la soma di un piccolo delinquente di qualche decina di chili rientrava nel ventaglio delle sevizie che era disposta a tollerare (d’altronde, è pecora). Il problema è la lana grezza: fosse la tua, nulla questio; ma se te l’hanno tolta e c’hanno fatto una canottiera spessa un dito che prude poco meno dell’ortica, la faccenda s’impiccia. Aggiungi il rollio del fantino e l’impossibilità di sganciarselo di dosso e la frittata è fatta.

Vabbè… che vuoi che sia? Un giro in groppa ad una pecora è quanto di più innocuo si possa immaginare, un modo per trascorrere quelle ore a non fa nulla. Vero. A meno che alla pecora non si annebbi la vista per il fastidio e il fantino perda il controllo dell’ovino. Che poi è quello che successe. Successe che durante un salto di un qualche ostacolo Alda staccò svariati centimetri da terrà ma non intravvide il fosso prima del quale si sarebbe dovuta fermare e ci finì dentro. E nel fosso, purtroppo non c’era soffice erba, ma un paio di spuntoni che le s’infilarono nella pancia. Alda rimase stecchita, non fece manco un fiato. Mio zio finì sbalzato oltre il fosso ma rimase praticamente illeso. Quando si tirò su, capì che stavolta non sarebbe stata come le altre.

Concordò con mio padre la versione che Alda era sparita e che non si trovava più; poi la ricoprì e portò indietro il resto del gregge.

Ora tu ti fideresti di un piccoletto nero come la pece con gli occhi sottili da farabutto, che ridono anche quando stanno piangendo, di una piccola carogna sdentata che non vede l’ora di raccontare una storia bellissima come quella?

E quindi, a poche decine di metri da casa, dopo aver giurato su qualsiasi cosa poteva giurare che avrebbe sostenuto il fratello nella messinscena anche a prezzo della sua stessa vita, si sganciò dalla comitiva, urlando:”Papà…papà… sai che ha fatto Secondo?”

Adesso capite.

È per questo che mio nonno stava legando mio zio alla quercia dopo aver fatto assaggiare alle sue gambe la finezza di un paio di ramo di vimini. Ed è per questo che lo avrebbe lasciato lì tutta la sera, forse tutta la notte, se il destino non avesse deciso diversamente.

Il destino o la piccola carogna brunastra.

Perché la storia era troppo bella per raccontarla ad una persona sola. E quello che era successo dopo la storia era troppo bello perché rimanesse patrimonio di sole tre persone.

La cavalleria sarmata.

Non doveva essere passato molto tempo dalla carcerazione che la terra cominciò a tremare, il vento s’alzò d’improvviso, il sole si obnubilò quasi completamente ed un’ombra corposa si palesò dal pianerottolo che collegava il secondo piano della casa alle scale che portavano all’aia.

“Chi t’ha legato, povero figlio mio?”.

L’ombra si consustanziò nella sua versione fisica e Nonna Rosa si scaraventò giù dalle scale, in pochi secondi raccolse i vimini lasciati a terra da mio nonno e si lanciò verso il figlio che preso alla sprovvista, si girò, piegò leggermente le gambe e allargò le braccia come fa un pistolero pronto a scaricare la sua pistola sul suo avversario, ma invece di affrontare l’avveniente, cominciò a correre verso la strada.

Immaginatevi un quarantenne scappare come un bambinetto di fronte ad una sessantenne furiosa a cui era stato toccato il nipote.

Mio padre racconta che Nonna Rosa desistette solo dopo che mio nonno sparì nel bosco. Tornò indietro e cominciò a togliere i vincoli al povero nipotino. “Che t’ha fatto quel delinquente? Ma come si fa a trattare così un povero cocco? Che non tornasse a casa fino a stasera!”

Nel frattempo, la storia era diventata di dominio pubblico e mia nonna, e gli altri due miei zii, dopo un iniziale doverosa preoccupazione dovuta alla perdita del pecus e della pecunia, commentavano con ridolini e occhiate malcelate la rincorsa da mezzofondista di Nonna Rosa e la figura ingloriosa del figlio.

Pace fu.

Il tutto finì a sera inoltrata. Mio nonno tornò a testa bassa e si fece cena in uno strano clima di tensione divertita.

È ovvio che mio nonno, che normalmente si tirava sulle spalle basti da un quintale e zappava are di terra senza fare una piega, avrebbe potuto fermare la madre anche solo standosene fermo, ritto di fronte a lei. Ciò che lo tenne lontano dal farlo era quel senso di rispetto per un’autorità che visti i fatti ci sembrerebbe un’assurdità. In realtà, il danno causato da mio zio era parte di quella quota di disgrazie che una famiglia può sopportare per crescere. Mio zio non s’azzardò più a fare quello che aveva fatto e quella vicenda dette un po’ di brio a delle esistenze che non avevano molte occasioni per divagarsi.

I membri della famiglia non coinvolti nel fattaccio continuarono a ridacchiare per giorni mimando i protagonisti della vicenda, ma guardandosi bene da farlo in loro presenza. Mio padre racconta che nei giorni successivi Nonna Rosa spuntava ogni volta che mio nonno e mio zio si trovavano a poca distanza l’uno dall’altro. Tanto per far capire che la prossima volta non avrebbe scherzato e ricordare chi comandava dentro (e fuori) quella casa.

E la pecora?

Chi se l’era passata peggio di tutti (leggasi, la pecora), fu individuata la sera stessa, anche se ormai era buio pesto, perché  in montagna non si può abbandonare un animale morto anche solo per poche ore: finirebbe nelle pance dei lupi. Alda fu caricata su una slitta e trasportata a braccia verso casa. Dopo essere stata ben ripulita ed fatta a pezzi, finì dentro una ‘callàra’, cioè un calderone che si metteva sul fuoco, nel camino.

Nell’aia fu attrezzato uno spazio e acceso un fuoco, la callàra fu posta sopra e dopo aver riposato tra erbe aromatiche e vino bianco ed essere stata cotta per parecchie ore andò a riempire pance che non erano quelle dei lupi.

Questo modo di cuocere la pecora era quello tipico dei pastori di queste zone, quando, durante la transumanza qualche vecchio esemplare si azzoppava o crollava per la troppa stanchezza: la pelle finiva a scaldare le notti all’addiaccio, e la carne a scaldare chi dormiva sotto la pelle. A quei tempi tutto quello che la natura ti dava tornava a circolare nello stesso ambiente da cui era nato.

 

“Lati che?”

“Lati che?”

Il ‘miracolo’ veniva raccontato normalmente nei periodi di festa, quando il vino cominciava a salire di quantità. Quel giorno non l’avrei tirata fuori la storia del latte di Cucca, c’avevo studiato sopra ma ero fisso sulle olive all’ascolana che erano arrivate a tavolo in quel momento. Non ricordo neanche da dove venne fuori il ‘gancio’.

“Carlo t’ha raccontato che il miracolo di nonna Rosa non è un miracolo? Racconti sempre un sacco di cavolate…” fece qualcuno in fondo al tavolo, forse mio fratello, rivolto a mio padre. “Dice che è stato latirismo…”. 

Una provocazione, buttata lì per farsi un a risata. Che vuoi che sia un provocazione in un giorno di festa, quando pancia e testa sono pieni di voglia di vivere e giocare? Niente, se non sei mio padre.

“Lati che?” L’occhiataccia si spostò lentamente dal fondo del tavolo verso di me.

“Latirismo… sarebbe…”

Allora, un attimo… prendiamola dall’inizio.

La ‘leggenda’ era più o meno questa. Mio padre raccontava che sua nonna Rosa D’Angelo, ormai avanti con gli anni, aveva perduto l’uso delle gambe. La situazione si era progressivamente aggravata intorno ai 70 anni di età (Rosa doveva essere nata intorno agli anni ‘70 del 1800) e dopo qualche anno quella strana malattia l’aveva costretta a letto. Le sue condizioni di salute erano ottime, ma le gambe non andavano più, ferme, morte. Mia nonna, sua nuora, aveva cominciato ad accudirla visto che all’inizio, prima della paralisi totale, Rosa aveva bisogno di sostegno per fare qualsiasi cosa. Sempre secondo la leggenda, la principale medicina furono tazzoni di latte di Cucca (che forse conoscete, vi ho raccontato qualcosa qui), una capra con una testa dura come il calcare che rivestiva il monte di fronte alla casa, acquistata proprio negli anni in cui Rosa cominciava ad ammalarsi.

La leggenda continua dicendo che Rosa fu accudita da mia nonna per 7 lunghi anni, poi, ad un certo punto, si rimise in piedi e tornò lentamente a fare quello che faceva prima. Morì quando aveva superato abbondantemente i 90 anni, quindi trascorse 20 anni dopo essersi rialzata dal letto.

In famiglia tutti attribuirono il miracolo al latte di Cucca. Certo, non c’erano certezze scientifiche, non è che dei medici potevano salirsene a  700 m di altitudine, in mezzo a macchie e lupi a metà del secolo scorso con una nazione in piena guerra o passata poco oltre, dove la penicillina era praticamente sconosciuta. Sì, in ospedale avevano provato a trascinarcela, su di un carro, per riportarla subito a casa:”S’è paralizzata, non avrà vita lunga.” Diagnosi e prognosi, tutto in 5 minuti, mica come adesso che ci mettono giorni. Come vi ho raccontato, Rosa che era una specie di quercia non priva di una certa gentile finezza (la leggenda, a dire il vero, usa altre parole: dice che tirava delle tortorate da kurgan ai figli, anche quarantenni, ma era capace di carezze e sguardi dolcissimi nei confronti dei nipoti) non fu per nulla d’accordo.

Miracolo! Finché…

Insomma, Cucca aveva fatto il miracolo. E così bisognava tramandare la leggenda. Finché…

Ecco, quel ‘finché’ ero io che, per quanto amassi i racconti di un tempo, ero sempre pronto a discuterne la genesi. Mi ricordavo che agli inizi del secolo scorso nel regime alimentare di molta gente di montagna un posto tutto suo lo aveva la cicerchia. È un legume che ormai nessuno conosce, nessuno lo coltiva più e fate fatica a trovarlo anche al supermercato. Collegai la faccenda a qualcosa che avevo letto sull’azione a livello neurologico di alcune neurotossine che erano contenute al suo interno e m’era venuta fuori la storia della paralisi degli arti interiori. Chiesi a mio padre se in famiglia la mangiassero, la cicerchia, ma niente… mangiavano praticamente qualsiasi tipo di legume e cereale… piselli, ceci, fagioli di tutti i tipi, saravolla (che poi sarebbe il saragolla, un grano incredibile, che addirittura il correttore mi segna ‘rosso’, non sa neanche lui che roba sia), castagne, fava, e un’altra dozzina di alimenti (tra cui non c’era il farro, ad esempio, “che veniva dato solo alle ‘bestie’…” diceva la leggenda, che evidentemente era abituata troppo bene). Niente… non poteva essere la cicerchia. 

Poi il colpo di genio. “Questa roba qui la conosci?”. E feci vedere a mio padre la foto della cicerchia secca, dei fiori e della pianta. “Be’, certo… questa è veccia, questa sì che si mangiava…”.

Se le cose non le sai…

Venne fuori che la cicerchia era un legume che consumavano in ogni modo. Veniva macinata e messa nella farina per fare il pane, oppure ci facevano minestroni di tutti i tipi e zuppe a non finire. La mangiavano perché non avevano acqua per irrigare i campi e quella piovana che recuperavano in bacini di raccolta o quella che si scioglieva dalla neve in primavera, serviva per bere o dare da bere alle ‘bestie’. La cicerchia non  temeva la siccità, cresceva praticamente dappertutto e potevi anche usarla come foraggio. Solo che non la chiamavano cicerchia, tutto qua.

Non dissi niente a mio padre. Innanzitutto perché non sono sicuro che la causa della malattia della mia bisnonna fosse il latirismo. E poi perché la leggenda di Cucca era troppo bella e niente aggiungeva alla storia di una donna di 70 anni che dopo 7 anni di paralisi era tornata a rialzarsi da un letto come niente fosse. Per me poteva essere stato anche il latte di quella carogna pezzata di macchie bianche e nere, non sarebbe cambiato nulla.

Più tardi provai a spiegare a mio padre la storia del latirismo, ma la leggenda è leggenda: è più interessante della Scienza e si racconta più facilmente.

Un Ponte per la Pace

Un Ponte per la Pace

Giochi di carte proibiti.

Parlare di Pace di questi tempi è un po’ complesso o forse troppo semplice. Ad eccezione di qualche psicolabile, tutti vorremmo in un mondo tranquillo, dove i conflitti fossero gestiti in maniera civile. Il problema è il prezzo da pagare per avere quale tipo di pace. In ogni caso, qualsiasi occasione che permetta di confrontarsi su una questione come questa, va bene: parlarne, è meglio che starsene in silenzio.

Il prossimo 22 aprile, in occasione dell’Earth Day 2022 proprio qui sotto al Ponte ci sarà una giornata di confronto organizzata da Maurizio Bargiacchi, proprio su questa questione; e spero che l’influenza benevola del Ponte, un ponte che per una volta non è stato creato dall’uomo e che quindi l’uomo farebbe fatica a distruggere, serva ad accrescere la consapevolezza che la Pace, per sua stessa natura, è un concetto un po’ complesso anche se di per sé molto semplice.

La gallina ritrovata e il muratore acculturato.

La gallina ritrovata e il muratore acculturato.

Armistizio Roccafluvione

Di questi tempi, di cose da fare ne ho. Ma un’oretta, quando posso la passo a rovistare tra la montagna di carta quasi polverizzata dal tempo, conservata dentro qualche cassetto nella Casa sul Ponte. E se ne trovano di cose strane.

L’immagine di copertina di questo post è una di queste. Si tratta del Protocollo del Comando Manipolare del Comune di Roccafluvione degli anni 1928-1931 che aveva proprio la sede in una casa di fronte al Ponte. Ora, come fa a stare qui? Ci sta perché mio nonno, dopo poco più di 20 anni di servizio nei Reali Carabinieri di Sua Maestà ‘Sciaboletta’, se ne era ritornato al paesello e da buon pensionato dello Stato, a 39 anni (leggasi ‘trentanove’) invece di mettersi a guardare un cantiere, si infilava in tutte le attività socio-politico-religiose che riusciva a trovare. Vi anticipo: era un baby-pensionato, certo, ma di quelli che s’era beccato un paio di terremoti in Calabria, quello devastante di Messina nel 1908, l’eruzione del Vesuvio del 1906 (che fu la peggiore del secolo scorso – causò centinaia di morti), oltre ad essersi fatto un paio di anni di fronte nella Grande Guerra, con un paio d’occasioni in cui aveva anche rischiato di lasciarci la pelle.. Insomma, un baby-pensionato di quelli ‘seri’. Al suo ritorno al paese, nel 1923 non poteva stare a girarsi i pollici:  quindi, tra le altre cose, aveva aperto una produzione di bibite, era diventato Presidente della locale Associazione dei Cacciatori, s’era messo a coltivare patate, pomodori e zafferano, e… era diventato capo del locale Manipolo della Milizia, di cui s’era fatto piazzare la sede vicino casa, per non fare troppa strada (si sa , a 40 anni, cominciano i primi acciacchi).

Il Protocollo: uno spaccato di Piccola Grande Storia.

Questo quadernone è l’unico che ho trovato, forse perché solo in quegli anni mio nonno è stato a capo del Manipolo o forse perché gli altri quadernoni sono andati perduti. Fatto sta che nel centinaio di pagine di cui è composto il quadernone, si trova un po’ di tutto, comprese alcune storie che ben inquadrano la vita dell’Italia di paese del ventennio. Quella della gallina e dell’offesa al Duce, ad esempio, sono emblematiche. Qui in fondo trovate gli scatti che ho fatto. Non ho cancellato i nomi perché si tratta di storie i cui protagonisti hanno lasciato questo mondo da molti decenni, oltre al fatto che non mi stupirei se le colpe che sono state loro attribuite fossero prive di qualsiasi fondamento, a parte la follia della regola da cui queste colpe scaturivano.

La gallina trafugata e ritrovata.

Comunque, dalla nota, pare certo che una gallina fosse stata trafugata e il colpevole sbattuto in galera: il rapporto non da adito a dubbi. I militi che con solerzia procedettero all’arresto, effettuarono così accurate indagini che già il giorno dopo il furto, avvenuto intorno alle 20:00 del 25 settembre 1928, il pericoloso furfante di anni 68 (che probabilmente aveva lo stomaco vuoto) era già nelle locali carceri a scontare la pena. Mi vedo davanti la scena dal Pinocchio di Comencini con il giudice Vittorio De Sica e il suo copricapo nero funereo, assistito da paffuti RR. CC. con pennacchio di ordinanza, che indica la porta della cella.

 Il muratore tradito.

Ma ci sono altri episodi che fanno meno ridere tipo quello che muratore ascolano a cui non è stata risparmiata la sua frase poco riguardevole nei confronti di S. E. il DVCE. Qualche solerte e militante contadino a cui l’apprezzamento nei confronti del Capo del Governo non era piaciuta, aveva fatto il suo bell’atto di delazione; o magari aveva subito un torto dal muratore e trovato la maniera migliore per fargliela pagare. Risultato: 6 mesi di reclusione, 600 lire di multa e spese processuali da pagare, solo per quel:”Abbasso Mussolini, quel carbonaio figlio di brigante”. Una frase più da docente universitario che da muratore marchigiano: il che fa già immaginare come davvero fossero andate le cose.