Curre, curre… Lù Macaròsce!

Curre, curre… Lù Macaròsce!

Vivace. Chi da molto piccolo combinava disastri  di tutti i colori, veniva definito vivace, perché carogna, delinquente, figlio di buona donna era  troppo per dei ‘pezzi di cuore’ e soprattutto poteva mettere in dubbio le capacità educative di madri e padri, oltre che quelle genitoriali. Per chi aveva pochi anni (ma anche qualcuno di più), dei rimedi esistevano. Uno era proprio il Macaròsc(e) – metto tra parentesi la ‘e’, perché nei dialetti dalle parti del Ponte, le vocali a fine parola scivolano via in un sibilo, più o meno lungo.

Il Macaròsc(e) (o Macaròce) era un essere indefinito, comunque grosso, brutto e puzzolente, di solito barbuto e con i capelli lunghi e mal curati, una roba come l’uomo nero, più o meno. Il suo scopo era uno solo: romperti le balle quando facevi quello che più ti piaceva o farti fare quello che non volevi fare. 

Da dove provenga questo termine non ne ho la più pallida idea. Su internet non ne ho trovato traccia e se lo chiedi qui intorno, ti sanno solo dire ciò che avete già letto. Quello che trovate appiccicato sulla Casa sul Ponte, a pochi passi dal Chiesa è venuto fuori qualche anno fa, opera di non so chi, ma mi è sembrato divertente ritrovarmi un pezzo d’infanzia sotto casa e pensare che il Macaròsce, che per mesi mi ha reso la vita tormentata, avesse quella faccia lì.

Ancora oggi, in famiglia, continuiamo ad evocarlo quando ci vengono fuori facce strane o espressioni cupe: “Sembri un macaròsce conciato in quel modo”; “Ma che è quella faccia? Hai visto un macaròsce?” 

Alla fine, la storia è sempre la stessa: quello che ti impressiona in tenera età te lo porti dietro anche quando finisci di credere alle favole e cominci a pensare che per quanto paurose, quelle favole siano molto meglio della realtà.

Primo!

Primo!

Anche quest’anno è arrivato, secondo programma e senza troppa fretta. È il primo, ma gli altri stanno solo aspettando di vedere che aria tira (e non è che sia buonissima).

Tempo un paio di settimana verranno fuori tutti, ma bisognerà aspettare ancora qualche mese per assaggiare il nuovo zafferano perché dopo l’essiccazione gli stimmi devono perdere quell’accento vegetale che li rende un po’ troppo dolci. Già a Natale si potrebbe utilizzare il nuovo, ma vale la pena aspettare qualche giorno di più, tanto una volta essiccato può durare ancora per mesi.

Prima di essere fiori.

Prima di essere fiori.

È un lavoraccio, si sa, altrimenti non avrebbe il valore che gli diamo. E non solo perché la terra sta in basso, forse quello è il meno, visto che lo zafferano è una pianta ‘misantropa’, se ne sta bene solitaria e poco curata. I

l lavoraccio sta sì nella semina e nella raccolta, nel togliere le erbacce che ricoprono la terra senza sosta, ma sta soprattutto nella selezione, nella scelta dei migliori bulbi che dovranno dare i migliori stimmi. Perché sono i bulbi, quelle pallozzole scure che vedete nella fotoqui sopra che daranno i fiori e questi gli stimmi.
Si parte da quegli ovali gibbosi e legnosi che dopo mesi daranno fiori, che dopo un lento e continuo procedimento daranno gli stimmi dello zafferano.

Come molte cose belle e buone della vita, l’origine dello zafferano non è proprio un esplosione di bellezza e profumo.

Aggiornamento di ottobre 2022.

Finalmente ce l’abbiamo fatta! È online il nostro sito realizzato per la prima produzione decente di zafferano. Abbiamo recuperato tutte le storie che giravano sopra ed ora, eccolo qua! www.zafferanopontenativo.it

Speriamo vi piacciano sia il sito che lo zafferano!

Quei fiori viola.

Quei fiori viola.

Ho cominciato a sentire parlare di zafferano quando venivo nella Casa sul Ponte a passare i mesi di svago estivo dopo le fatiche (si fa per dire) della scuola. Mio zio raccontava che mio nonno si era appassionato allo zafferano a tal punto da portarsene via dei bulbi dall’Abruzzo, dove aveva lavorato; li aveva piantati nell’orto e nel giardino e ne utilizzava il prodotto essiccato per la cucina.

Il risotto alla milanese è sempre rimasto tra i cibi che consumavamo più spesso, perché mia madre si trascinava nelle ricette questa storia giallo-ocra e la riproponeva spesso nelle sfumature più diverse. Nessuno dei miei zii aveva continuato la coltivazione della spezia, ma ogni tanto si vedevano spuntare nel giardino questi fiori violacei che duravano un attimo.

Per me erano fiori come tutti gli alti, solo un po’ strani, erano bassi e sparivano subito.

Mio fratello se ne portò via qualcuno e cominciò a coltivarlo; parlava di Navelli, che da lì nonno avrebbe portato a Roccafluvione i bulbi di zafferano, che era una coltivazione difficile, dove la terra doveva essere in un certo modo ed il lavoro manuale era infinito, che secondo lui non viene fuori niente, etc. etc.

Adesso lo zafferano è tornato a crescere in giardino, poche piante per toglierci lo sfizio di mangiare qualche buon piatto di risotto, fatto con vero zafferano locale, la parte migliore degli stami. E credetemi, non c’è paragone con quello che comprate in un supermercato e con il divertimento di coltivarlo.