‘na iurca… ‘na turca… insomma, quella roba lì…

‘na iurca… ‘na turca… insomma, quella roba lì…

“Dalle parti tue c’è una che fa clempincs, fa dormire in una iurca… me puoi sentire se c’ha posto?”

“‘Na che?”

Glamping, si dice glamping

Ora a parte il fatto che glamping non si scrive come mi hai detto te al telefono, e che yurta non si dice ‘iurca’ (che sembra un modo poco simpatico per apostrofare una bella ragazza, piuttosto che una tenda mongola), ma che io c’ho scritto ‘tour operator’ sulla fronte? Vai su ilrifugiodeimarsi.com, ti vai a vedere il tuo bel calendarietto con le prenotazioncine, con il ditino sul mouse pigi sulla datina che te serve e via. Non è che adesso perché ho dato una mano a Sara a sistemare il sito divento pure l’agente per le Marche, ahò!

L’eccezione…

Comunque, per ‘sta volta ho fatto un’eccezione, ma solo perché questo di cui sopra è n’amico di vecchia data e perché se capisce lontano un miglio che ad avere avuto l’idea di farsi un fine settimana in mezzo al verde di queste montagne non è stato lui, ma la sua cara signora, che se viene a sapere che questo di cui sopra chiama ‘iurca’ una ‘yurta’, probabilmente lo mette a pane e mortadella per qualche giorno… che poi manco tanto male je farebbe.

A Norma, Sara ed Ezio, vanno comunque i complimenti per essere riusciti a far scucire 4 euri 4 a questo di cui sopra, che (rimanga tra di noi) fino a qualche mese fa aveva prenotato al massimo alla Pensione Caterina di Vattelappesca di Sotto… e siccome già si sarà riconosciuto, mi fermo qui nella speranza che la rappresaglia che mi aspetta sia di modesta entità… 😆

“Che altro poteva fare?”

“Che altro poteva fare?”

Erano i primissimi anni ’80, forse il 1981 o il 1982, non ricordo la Casa sul Ponte era quasi terminata. C’erano da fare piccoli ritocchi, riempirla con qualche mobile, un po’ di pittura e sarebbe tornata a vivere. I lavori di ristrutturazione s’erano prolungati perché questa, dove vivo oggi, era la vecchia casa dei miei nonni e la utilizzavamo solo come seconda casa, un mezzo accampamento in cui sentirsi liberi di fare tutto, in mezzo a tanto verde.

La striscia

Tra le cose che mancavano c’era la sistemazione di un piccolo giardino davanti, di una striscia di terra laterale e degli spazi sul retro che danno sul fiume. Un paio di giornate di zappa e qualche carriola di terra, tutto qui, roba che mio padre si sarebbe fatto nella metà del tempo; ma… che “tuo zio Secondo si fa in due ore”.   

Mio zio Secondo, non era tipo da chiacchiere. Era uno i quei tipi che risolveva le cose con il lavoro: gli trovavi qualcosa da fare e lui la faceva. E gli riusciva meglio se c’era da sputare sangue, tirare su sacchi da un quintale, zappare un paio di tavole di terra, trascinare tronchi spinosi di acacia da una parte all’altra di un bosco. Era alto quasi un metro e 90 – dell’altezza non gli fregava niente, quindi non se l’era mai misurata –  e non gli trovavi un grammo di grasso addosso neanche se glielo cavavi con le pinze; muscoli e basta. Come tutti quelli grossi era stato condannato a vivere da grosso: se servivano due braccia, cercavano le sue. Che fosse un vicino, il capo al lavoro, la moglie, o qualcun altro di famiglia, Secondo c’era. Sempre. La misura del cuore che diceva ‘Sì’ ad una richiesta di aiuto era la stessa dell’organo che spingeva la macchina a compiere il soccorso: ‘grossa’.

Saluti speciali

Accennavo al fatto che parlasse poco, e poco era solito parlare pure mio padre. Poche erano pure le smancerie che si facevano l’un l’altro quando s’incontravano. Raramente salivamo a Colli di Funti, dove viveva mio zio Secondo, ma in genere l’incontro tra lui e mio padre era più simile a quello di due tori che si incrociavano in una strada di campagna. Si accorgevano da lontano l’uno dell’altro, si bloccavano, cominciavano a buttare fumo dalle narici, poi acceleravano il passo e finivano per salutarsi con pacche sulle spalle o abbracci da boa constrictor. Bofonchiavano qualche suono gutturale in dialetto (che poi mio padre quasi non capiva più) e si sedevano in cantina, spesso a bere della grappa alla ruta, (rigorosamente e orgogliosamente distillata contro ogni legge dello stato) che avrebbe perforato anche un foglio d’acciaio. Si volevano un bene dell’anima, ma lo riuscivi ad intravedere solo da qualche sguardo, perché per il resto quegli incontri erano roba da lotta greco-romana: cazzotti, sberle, manate, qualche ‘torturata’ (da ‘tortòre’, che è tutto meno che un gentile volatile) e parecchie prese a tradimento alle gambe, fatte per sollevare l’avversario e sbatterlo su qualche muro rasposo di cemento a grana grossa che non sarebbe mai stato intonacato.

Insomma quel: “tuo zio Secondo lo fa in due ore”, era solo una scusa per rivedersi. Macchina, a casa di mio zio, la solita grossolana sequela di manifestazioni d’affetto, e poi via sul luogo dell’impresa.

Secondo e Giovanni

Nel frattempo la casa si era riempita. Era arrivata mia zia, la sorella di mia madre con suo marito, Giovanni, le mie due cugine e non so chi altro, ma c’era parecchio movimento. Mio zio Giovanni aveva in comune con mio zio Secondo la bontà d’animo, ma per tutto il resto non ho mai veduto due uomini più diversi. Giovanni, esile ma deciso, raffinato, con una continua voglia di scambiare quattro chiacchiere con chiunque gli capitasse a tiro, una gentilezza nei modi che stava meglio in una sala da tè che una valle di di montagna, comunque sempre pronto a dare una mano dove ce ne fosse bisogno; Secondo, quella roba che sapete già.

I miei due zii si conoscevano, ovviamente, ma si erano visti non più di una decine volte. Vivevano in mondi e modi separati: i 25 km che li dividevano erano tutte curve e strade in salita che decuplicavano le distanze, in tempi e luoghi in cui anche avere patente e automobile non era scontato.

Il fattaccio

“Eccoci.” Feci quasi a presentare l’inopinato spettacolo che si sarebbe svolto di lì a poco. Secondo salutò tutti con un sorriso rumoroso e si indirizzò subito verso un bidente appoggiato su un muretto. Mio padre prese il suo con l’intento di aiutarlo ma sentì un ruggito che lo bloccò:”Lèvati, faccio io, che è roba di chi sa fare”. L’uomo-aratro prese il bidente e comincio ad menare la terra. Tirava colpi da 30 cm di profondità, rivoltava l’arenaria non troppo indurita e se la lasciava alle spalle. Le zolle schizzavano all’indietro di mezzo metro e ricadevano dove era previsto che dovessero ricadere, terrorizzate pure loro dalla belluinità del gesto. Il rumore che faceva il bidente cozzando sulla terra era simile ad un tonfo sordo di un masso lanciato su una superficie morbida. Ora si potrebbe pensare che dopo i primi colpi, mio zio diradasse la frequenza a causa della difficoltà di mantenere il ritmo. In realtà succedeva il contrario: i primi colpi erano serviti per saggiare la resistenza dell’obiettivo; adesso, la cadenza stava aumentando in un crescendo lento ma inesorabile, tanto che le persone che stavano mangiucchiano e bevendo davanti la casa, dopo lo stupore dato dai primi colpi, cominciarono pian piano a fissare tutta la zona delle operazioni belliche come in attesa che il motore smettesse di funzionare per il troppo surriscaldamento. Macché, niente. Risultato: in pochi minuti, un quarto della striscia era andata.

Spinto da una maledetta e inopinata voglia di dare una mano, mio zio Giovanni si avvicinò alla striscia di terra dove era cominciato il dissodamento, raccolse un qualche attrezzo proporzionato alla sua misura e cominciò a smontare le zolle, pezzetto per pezzetto, al ritmo di una zolla ogni due metri di striscia arata. Non so davvero in che modo sia successo, ma Secondo si accorse che alle sue spalle stava succedendo qualcosa che non era previsto ma che soprattutto – e questa era la parte terrificante – non andava fatto. Mai. Emise un suono gutturale poco decifrabile, e poi successe quello che successe.

“Ma che stanno facendo dietro alle mie spalle? Come si permettono di ripassare sul pezzo di terra che ho zappato? Perché rompono le mie zolle, prima che io, dopo aver finito di rivoltare la terra, cominci a fresarla? Ma che stanno insinuando che io non faccia bene il mio lavoro?”

Dietro Secondo poteva esserci chiunque: un figlio, una figlia, il fratello, io o anche un bimbo di pochi anni. Ma se una cosa non andava fatta era zappare dove era stato zappato: era una dichiarazione di guerra. Di più, un’offesa all’integrità morale e professionale dello zappatore.

Ora, questo io non lo sapevo; se c’era qualcuno che poteva immaginare quanto fosse umiliante zappare dove era stato zappato, che poteva capire che genere di affronto si nascondesse dietro un gesto d’affetto, di  aiuto, quello poteva essere mio padre;  e infatti lo vidi rabbuiarsi e subito dopo scattare mio verso suo fratello. Ma non fece in tempo.

Secondo aveva già sollevato lo scalcinato bidone di tempera vuoto che stava riempendo con i sassi e le impurità che man mano saltavano fuori dal terreno, lo portò sopra la testa e lo scagliò verso Giovanni che stava ormai ad una quindicina di metri da dove era arrivata la furia scavatrice. Saranno stati una decina di chili di sassi e pietre che appena lasciarono il braccio dello zappatore infamato, si sparsero come bombe a grappolo verso l’aiutante.

Simultaneamente al lancio si udì un boato e poi solo il rumore delle pietre che cadevano in terra assieme al bidone. Mio zio Giovanni non fece neanche in tempo a capire che stesse succedendo, ma per sua fortuna non lo raggiunse neanche un sassolino. Lentamente si allontanò dalle ‘sue’ zolle che tornarono appannaggio di chi, zolle, le aveva rese.

Mio padre che intanto era arrivato dal lanciatore si senti dire dal fratello:”Non si rizappa sullo zappato”. Annuì e poi lo sentì dire:”Ma Secò, ma mica lo sapeva!”. La risposta non lasciò spazio a repliche:”Lo sapeva, lo sapeva.”

Ma la cosa che mi lasciò basito fu quello che successe poi.

In meno di un minuto, Secondo tornò a zappare. Tutti gli astanti, che s’erano immobilizzati in attesa di conoscere il punto d’impatto dei proiettili, tornarono a mangiucchiare e bere allegramente cosi come fecero mio padre e mio zio Giovanni; e tutti senza fare parola di quello che era successo. Io che non potevo credere a quello che avevo visto me ne ero tornato tra la piccola folla e mentre prendevo un pezzo di crostata e riempivo il bicchiere di spuma, sentì uno dei vecchi rivolgersi a mio padre e scrollando le spalle, dirgli:”Oh Pi’… d’altronde, che doveva fare Secondo? Gli stava zappettando dove aveva zappato.”

Curre, curre… Lù Macaròsce!

Curre, curre… Lù Macaròsce!

Vivace. Chi da molto piccolo combinava disastri  di tutti i colori, veniva definito vivace, perché carogna, delinquente, figlio di buona donna era  troppo per dei ‘pezzi di cuore’ e soprattutto poteva mettere in dubbio le capacità educative di madri e padri, oltre che quelle genitoriali. Per chi aveva pochi anni (ma anche qualcuno di più), dei rimedi esistevano. Uno era proprio il Macaròsc(e) – metto tra parentesi la ‘e’, perché nei dialetti dalle parti del Ponte, le vocali a fine parola scivolano via in un sibilo, più o meno lungo.

Il Macaròsc(e) (o Macaròce) era un essere indefinito, comunque grosso, brutto e puzzolente, di solito barbuto e con i capelli lunghi e mal curati, una roba come l’uomo nero, più o meno. Il suo scopo era uno solo: romperti le balle quando facevi quello che più ti piaceva o farti fare quello che non volevi fare. 

Da dove provenga questo termine non ne ho la più pallida idea. Su internet non ne ho trovato traccia e se lo chiedi qui intorno, ti sanno solo dire ciò che avete già letto. Quello che trovate appiccicato sulla Casa sul Ponte, a pochi passi dal Chiesa è venuto fuori qualche anno fa, opera di non so chi, ma mi è sembrato divertente ritrovarmi un pezzo d’infanzia sotto casa e pensare che il Macaròsce, che per mesi mi ha reso la vita tormentata, avesse quella faccia lì.

Ancora oggi, in famiglia, continuiamo ad evocarlo quando ci vengono fuori facce strane o espressioni cupe: “Sembri un macaròsce conciato in quel modo”; “Ma che è quella faccia? Hai visto un macaròsce?” 

Alla fine, la storia è sempre la stessa: quello che ti impressiona in tenera età te lo porti dietro anche quando finisci di credere alle favole e cominci a pensare che per quanto paurose, quelle favole siano molto meglio della realtà.

Il Ponte in 3D

Il Ponte in 3D

Mi hanno chiesto di fare un vidceo sul Ponte: ho preferito questa soluzione. Si tratta di riprese in 3D a cui ho aggiunto dei link ad altre parti del sito. Cliccate sulla foto qui a fianco (o sopra, se vedete da smartphone). Spero vi piaccia 😉

Primo!

Primo!

Anche quest’anno è arrivato, secondo programma e senza troppa fretta. È il primo, ma gli altri stanno solo aspettando di vedere che aria tira (e non è che sia buonissima).

Tempo un paio di settimana verranno fuori tutti, ma bisognerà aspettare ancora qualche mese per assaggiare il nuovo zafferano perché dopo l’essiccazione gli stimmi devono perdere quell’accento vegetale che li rende un po’ troppo dolci. Già a Natale si potrebbe utilizzare il nuovo, ma vale la pena aspettare qualche giorno di più, tanto una volta essiccato può durare ancora per mesi.

Eccitante quella cellula.

Eccitante quella cellula.

Sono dovuto andarmela a cercare per togliermi il dubbio che quei termini nascondessero qualcosa di scabroso. Vi risparmio la spiegazione, roba da cinefili ma comunque molto interessante. Per tagliare corto, la cellula eccitatrice era la responsabile del sonoro nelle pellicole cinematografiche; e mi fermo qui. Ma vi racconto invece che due miei zii acquistarono l’attrezzo che vedete nelle foto per portare i primi film in una stanza del comune di Roccafluvione una sessantina di anni fa.

Per chi non aveva idea di esseri umani se non in carne ed ossa, vedersi spuntare da una parete Gesù crocefisso sul Calvario, o San Francesco che ammansisce un lupo, non era cosa da poco.

Lo racconta chi era bambino alla fine degli anni ‘50 e oggi si fa ancora delle grasse risate ripensando alle vecchie contadine che urlavano e piangevano e pregavano mentre la pellicola riproduceva i passi del Vangelo. Racconta anche che nei periodi di maggiore tensione della proiezione, lui, che aveva l’età giusta per combinare guai, si infilava tra le sedie, alcune portate da casa, e faceva schizzare qualche spettatore ipnotizzato, con il classico “Bu!” a cui seguiva il lancio di bastoni e borse. Poi c’erano quelli che alzavano il braccio proiettando le ‘corna’ sullo schermo, chi tossiva in continuazione, chi veniva vestito come andasse a messa, chi usava l’oscurità per strappare qualche promessa per il dopo cinema.

Il più tecnico dei miei due zii era l’addetto alla proiezione; l’altro, nato organizzatore, staccava i biglietti e presentava i film.

Poi la televisione e della cellula eccitatrice rimase solo quella scritta sul pannellino, lì, dove sta adesso, accumulando polvere come probabilmente continuerà a fare per il futuro.