“Che altro poteva fare?”
Erano i primissimi anni ’80, forse il 1981 o il 1982, non ricordo la Casa sul Ponte era quasi terminata. C’erano da fare piccoli ritocchi, riempirla con qualche mobile, un po’ di pittura e sarebbe tornata a vivere. I lavori di ristrutturazione s’erano prolungati perché questa, dove vivo oggi, era la vecchia casa dei miei nonni e la utilizzavamo solo come seconda casa, un mezzo accampamento in cui sentirsi liberi di fare tutto, in mezzo a tanto verde.
La striscia
Tra le cose che mancavano c’era la sistemazione di un piccolo giardino davanti, di una striscia di terra laterale e degli spazi sul retro che danno sul fiume. Un paio di giornate di zappa e qualche carriola di terra, tutto qui, roba che mio padre si sarebbe fatto nella metà del tempo; ma… che “tuo zio Secondo si fa in due ore”.
Mio zio Secondo, non era tipo da chiacchiere. Era uno i quei tipi che risolveva le cose con il lavoro: gli trovavi qualcosa da fare e lui la faceva. E gli riusciva meglio se c’era da sputare sangue, tirare su sacchi da un quintale, zappare un paio di tavole di terra, trascinare tronchi spinosi di acacia da una parte all’altra di un bosco. Era alto quasi un metro e 90 – dell’altezza non gli fregava niente, quindi non se l’era mai misurata – e non gli trovavi un grammo di grasso addosso neanche se glielo cavavi con le pinze; muscoli e basta. Come tutti quelli grossi era stato condannato a vivere da grosso: se servivano due braccia, cercavano le sue. Che fosse un vicino, il capo al lavoro, la moglie, o qualcun altro di famiglia, Secondo c’era. Sempre. La misura del cuore che diceva ‘Sì’ ad una richiesta di aiuto era la stessa dell’organo che spingeva la macchina a compiere il soccorso: ‘grossa’.
Saluti speciali
Accennavo al fatto che parlasse poco, e poco era solito parlare pure mio padre. Poche erano pure le smancerie che si facevano l’un l’altro quando s’incontravano. Raramente salivamo a Colli di Funti, dove viveva mio zio Secondo, ma in genere l’incontro tra lui e mio padre era più simile a quello di due tori che si incrociavano in una strada di campagna. Si accorgevano da lontano l’uno dell’altro, si bloccavano, cominciavano a buttare fumo dalle narici, poi acceleravano il passo e finivano per salutarsi con pacche sulle spalle o abbracci da boa constrictor. Bofonchiavano qualche suono gutturale in dialetto (che poi mio padre quasi non capiva più) e si sedevano in cantina, spesso a bere della grappa alla ruta, (rigorosamente e orgogliosamente distillata contro ogni legge dello stato) che avrebbe perforato anche un foglio d’acciaio. Si volevano un bene dell’anima, ma lo riuscivi ad intravedere solo da qualche sguardo, perché per il resto quegli incontri erano roba da lotta greco-romana: cazzotti, sberle, manate, qualche ‘torturata’ (da ‘tortòre’, che è tutto meno che un gentile volatile) e parecchie prese a tradimento alle gambe, fatte per sollevare l’avversario e sbatterlo su qualche muro rasposo di cemento a grana grossa che non sarebbe mai stato intonacato.
Insomma quel: “tuo zio Secondo lo fa in due ore”, era solo una scusa per rivedersi. Macchina, a casa di mio zio, la solita grossolana sequela di manifestazioni d’affetto, e poi via sul luogo dell’impresa.
Secondo e Giovanni
Nel frattempo la casa si era riempita. Era arrivata mia zia, la sorella di mia madre con suo marito, Giovanni, le mie due cugine e non so chi altro, ma c’era parecchio movimento. Mio zio Giovanni aveva in comune con mio zio Secondo la bontà d’animo, ma per tutto il resto non ho mai veduto due uomini più diversi. Giovanni, esile ma deciso, raffinato, con una continua voglia di scambiare quattro chiacchiere con chiunque gli capitasse a tiro, una gentilezza nei modi che stava meglio in una sala da tè che una valle di di montagna, comunque sempre pronto a dare una mano dove ce ne fosse bisogno; Secondo, quella roba che sapete già.
I miei due zii si conoscevano, ovviamente, ma si erano visti non più di una decine volte. Vivevano in mondi e modi separati: i 25 km che li dividevano erano tutte curve e strade in salita che decuplicavano le distanze, in tempi e luoghi in cui anche avere patente e automobile non era scontato.
Il fattaccio
“Eccoci.” Feci quasi a presentare l’inopinato spettacolo che si sarebbe svolto di lì a poco. Secondo salutò tutti con un sorriso rumoroso e si indirizzò subito verso un bidente appoggiato su un muretto. Mio padre prese il suo con l’intento di aiutarlo ma sentì un ruggito che lo bloccò:”Lèvati, faccio io, che è roba di chi sa fare”. L’uomo-aratro prese il bidente e comincio ad menare la terra. Tirava colpi da 30 cm di profondità, rivoltava l’arenaria non troppo indurita e se la lasciava alle spalle. Le zolle schizzavano all’indietro di mezzo metro e ricadevano dove era previsto che dovessero ricadere, terrorizzate pure loro dalla belluinità del gesto. Il rumore che faceva il bidente cozzando sulla terra era simile ad un tonfo sordo di un masso lanciato su una superficie morbida. Ora si potrebbe pensare che dopo i primi colpi, mio zio diradasse la frequenza a causa della difficoltà di mantenere il ritmo. In realtà succedeva il contrario: i primi colpi erano serviti per saggiare la resistenza dell’obiettivo; adesso, la cadenza stava aumentando in un crescendo lento ma inesorabile, tanto che le persone che stavano mangiucchiano e bevendo davanti la casa, dopo lo stupore dato dai primi colpi, cominciarono pian piano a fissare tutta la zona delle operazioni belliche come in attesa che il motore smettesse di funzionare per il troppo surriscaldamento. Macché, niente. Risultato: in pochi minuti, un quarto della striscia era andata.
Spinto da una maledetta e inopinata voglia di dare una mano, mio zio Giovanni si avvicinò alla striscia di terra dove era cominciato il dissodamento, raccolse un qualche attrezzo proporzionato alla sua misura e cominciò a smontare le zolle, pezzetto per pezzetto, al ritmo di una zolla ogni due metri di striscia arata. Non so davvero in che modo sia successo, ma Secondo si accorse che alle sue spalle stava succedendo qualcosa che non era previsto ma che soprattutto – e questa era la parte terrificante – non andava fatto. Mai. Emise un suono gutturale poco decifrabile, e poi successe quello che successe.
“Ma che stanno facendo dietro alle mie spalle? Come si permettono di ripassare sul pezzo di terra che ho zappato? Perché rompono le mie zolle, prima che io, dopo aver finito di rivoltare la terra, cominci a fresarla? Ma che stanno insinuando che io non faccia bene il mio lavoro?”
Dietro Secondo poteva esserci chiunque: un figlio, una figlia, il fratello, io o anche un bimbo di pochi anni. Ma se una cosa non andava fatta era zappare dove era stato zappato: era una dichiarazione di guerra. Di più, un’offesa all’integrità morale e professionale dello zappatore.
Ora, questo io non lo sapevo; se c’era qualcuno che poteva immaginare quanto fosse umiliante zappare dove era stato zappato, che poteva capire che genere di affronto si nascondesse dietro un gesto d’affetto, di aiuto, quello poteva essere mio padre; e infatti lo vidi rabbuiarsi e subito dopo scattare mio verso suo fratello. Ma non fece in tempo.
Secondo aveva già sollevato lo scalcinato bidone di tempera vuoto che stava riempendo con i sassi e le impurità che man mano saltavano fuori dal terreno, lo portò sopra la testa e lo scagliò verso Giovanni che stava ormai ad una quindicina di metri da dove era arrivata la furia scavatrice. Saranno stati una decina di chili di sassi e pietre che appena lasciarono il braccio dello zappatore infamato, si sparsero come bombe a grappolo verso l’aiutante.
Simultaneamente al lancio si udì un boato e poi solo il rumore delle pietre che cadevano in terra assieme al bidone. Mio zio Giovanni non fece neanche in tempo a capire che stesse succedendo, ma per sua fortuna non lo raggiunse neanche un sassolino. Lentamente si allontanò dalle ‘sue’ zolle che tornarono appannaggio di chi, zolle, le aveva rese.
Mio padre che intanto era arrivato dal lanciatore si senti dire dal fratello:”Non si rizappa sullo zappato”. Annuì e poi lo sentì dire:”Ma Secò, ma mica lo sapeva!”. La risposta non lasciò spazio a repliche:”Lo sapeva, lo sapeva.”
Ma la cosa che mi lasciò basito fu quello che successe poi.
In meno di un minuto, Secondo tornò a zappare. Tutti gli astanti, che s’erano immobilizzati in attesa di conoscere il punto d’impatto dei proiettili, tornarono a mangiucchiare e bere allegramente cosi come fecero mio padre e mio zio Giovanni; e tutti senza fare parola di quello che era successo. Io che non potevo credere a quello che avevo visto me ne ero tornato tra la piccola folla e mentre prendevo un pezzo di crostata e riempivo il bicchiere di spuma, sentì uno dei vecchi rivolgersi a mio padre e scrollando le spalle, dirgli:”Oh Pi’… d’altronde, che doveva fare Secondo? Gli stava zappettando dove aveva zappato.”
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