A passo di carica.
Di Nonna Rosa forse avete letto qui. Era un incrocio tra una brezza di montagna che ti accarezza il volto e un kurgan sarmata al galoppo, un po’ come molte donne (meglio, ‘femmine’) che popolavano le vallate dell’entroterra ascolano tra Castellano e Fluvione, luoghi dove i ‘maschi’ avevano funzioni sociali solo se erano in grado di spaccare la terra a colpi di bidente (anche questo, un attrezzo praticamente scomparso), fare legna e carbone, guidare un carro e gestire gli animali più grossi. Nonna Rosa (che poi non era mia nonna, ma mia bisnonna, anche se era chiamata da tutti noi così), era l’emblema di questo matriarcato di montagna, che vedeva le madri/suocere a capo di famiglie che contavano anche decine di poveri cristi. Non era un Potere concesso per qualche regola tramandata oralmente, o meglio, non era solo quello. Era Potere conquistato sul campo, a forza di tortorate e urla bestiali, ma anche tanta sapienza che consentiva di trovare sempre una soluzione per le questioni più complesse.
La quercia e il bimbo legato
Però adesso Nonna Rosa lasciamola un po’ lì; tornerà presto, e per il momento concentratevi su altro. Concentratevi su un’aia di montagna, una di quegli spazi immensi con una grande casa su un margine, un grande albero ad un altro margine (una quercia, in questo caso), una fontana, una cisterna o un abbeveratoio. Immaginate di essere in una bel pomeriggio di primavera avanzata, con il sole che comincia già a cuocere, ma che è ancora gradevole sulla pelle. E adesso pensate a due bambini, uno di una decina d’anni o poco più; l’altro della metà degli anni; e poi un uomo, sulla quarantina che sta finendo di legare alla grande quercia il bambino più grande, con una corda di canapa spessa un dito (roba da 3 o 4 anni di galera, oggi), e il bambino più piccolo che sta su monticello di terra, con una mano alla bocca che cerca di trattenere una risata che prorompe fragorosa a tratti, tra gli spazi lasciati dai primi denti da latte che se ne sono andati. Ecco, quell’uomo è mio nonno Felice, che sta legando alla quercia mio zio Secondo, con mio padre Giuseppe che si sbellica dal ridere, in cima a quel mucchio di terra.
Ora, poiché mio nonno era tutto fuorché un farabutto picchiatore, ma anzi, era famoso per non aver mai alzato un dito su nessuno dei figli, probabilmente per essere finito lì, mio zio Secondo ne doveva aver combinata una delle sue, ma una grossa tanto. E facciamo un gioco: quando leggerete di cosa si tratta, vi renderete conto di come la bontà abbia limiti che in questo caso, anche un santo, travalicherebbe senza neanche riflettere. Scommettiamo?
Serve partire un po’ da lontano, faccio veloce.
Non se ne può più.
Dopo aver finito le scuole elementari, in montagna, si andava dietro alle pecore. Andare dietro alle pecore significava portarle al pascolo la mattina, tenerle sempre sotto controllo (perché qualche pecora sovversiva nel gregge c’è sempre) e quindi guidarle lontano da dirupi e zone scoscese; poi evitare che qualche predatore, umano o animale, si facesse idee strane; infine ricondurre il gregge all’ovile. Anche se vi sembra un’attività piuttosto rilassante, mio padre raccontava come fosse la più grande rottura di scatole che potesse capitare ad un bambino: non potevi muoverti più di tanto, la maggior parte del tempo non sapevi che diavolo fare e finché il sole non scendeva in quel determinato punto a casa non potevi tornare. Se avevi un fratello minore che ancora non andava a scuola, poteva tenerti compagnia; ma di solito gli altri compagni di gioco o avevano la tua stessa età, e allora stavano facendo quello che stavi facendo tu; oppure erano più piccoli e allora erano a scuola.
E non era una responsabilità da poco, perché le pecore erano una risorsa molto importante anche per chi non era pastore di professione: pecora significava agnelli, lana e latte e quindi, oltre a vestiti, significava ricotta e formaggio che, a quanto pare, erano piuttosto apprezzati giù in città. Insomma, pecora viene da pecus e da pecus viene pecunia: e ci siamo detti tutto.
Scatta Ribot
Però un bambino è sempre un bambino, lo è oggi così come lo era 90 anni fa; bambino non sarà sinonimo di ‘carogna’ in assoluto, ma in quel caso specifico, sì. Mio padre racconta che mio zio Secondo fosse smisuratamente forte e vivace fin da piccolo e 5 ore a guardare pecore, be’ era praticamente impossibile vedercelo. E infatti, fermo non ci stava. Mai. Neanche in quel giorno di primavera inoltrata quando decise di fare il gioco che tante volte gli era stato detto di non fare. Prese la sua giubba, che già era stata del fratello più grande e chissà di chi altro, e la canotta di lana grezza, poi si mise all’opera. “Tu sta zitto, mi raccomando.”, fece mio zio a mio padre mentre faceva passare le maniche della giubba sotto la pancia della pecora più robusta (la chiamerò Alda, tanto per darle un nome) e le annodava sopra la schiena. Salì a cavalcioni dell’animale e infilò tra pancia e giubba la canotta di lana grezza. Mio padre ripeteva le ultime parole di mio zio prima dell’imponderabile. “Arrivo al fosso e torno indietro.” Sì, perché cavalcare una pecora è un’attività codificata da secoli di pratica, quindi, è semplice controllarne il percorso, vero?
Fatto sta che mio zio strinse forte le maniche della giubba ed Alda scattò come una molla. Mio padre dice di non aver visto più Ribot e il suo fantino già qualche secondo dopo lo scatto.
Lana grezza.
Spiego in termini di fisica quantistica cosa succedeva in questi casi (perché non è un gioco che s’era inventato mio zio, era pratica comune). La pecora poteva sì sopportare una giubba legata delicatamente sotto la sua pancia, e anche la soma di un piccolo delinquente di qualche decina di chili rientrava nel ventaglio delle sevizie che era disposta a tollerare (d’altronde, è pecora). Il problema è la lana grezza: fosse la tua, nulla questio; ma se te l’hanno tolta e c’hanno fatto una canottiera spessa un dito che prude poco meno dell’ortica, la faccenda s’impiccia. Aggiungi il rollio del fantino e l’impossibilità di sganciarselo di dosso e la frittata è fatta.
Vabbè… che vuoi che sia? Un giro in groppa ad una pecora è quanto di più innocuo si possa immaginare, un modo per trascorrere quelle ore a non fa nulla. Vero. A meno che alla pecora non si annebbi la vista per il fastidio e il fantino perda il controllo dell’ovino. Che poi è quello che successe. Successe che durante un salto di un qualche ostacolo Alda staccò svariati centimetri da terrà ma non intravvide il fosso prima del quale si sarebbe dovuta fermare e ci finì dentro. E nel fosso, purtroppo non c’era soffice erba, ma un paio di spuntoni che le s’infilarono nella pancia. Alda rimase stecchita, non fece manco un fiato. Mio zio finì sbalzato oltre il fosso ma rimase praticamente illeso. Quando si tirò su, capì che stavolta non sarebbe stata come le altre.
Concordò con mio padre la versione che Alda era sparita e che non si trovava più; poi la ricoprì e portò indietro il resto del gregge.
Ora tu ti fideresti di un piccoletto nero come la pece con gli occhi sottili da farabutto, che ridono anche quando stanno piangendo, di una piccola carogna sdentata che non vede l’ora di raccontare una storia bellissima come quella?
E quindi, a poche decine di metri da casa, dopo aver giurato su qualsiasi cosa poteva giurare che avrebbe sostenuto il fratello nella messinscena anche a prezzo della sua stessa vita, si sganciò dalla comitiva, urlando:”Papà…papà… sai che ha fatto Secondo?”
Adesso capite.
È per questo che mio nonno stava legando mio zio alla quercia dopo aver fatto assaggiare alle sue gambe la finezza di un paio di ramo di vimini. Ed è per questo che lo avrebbe lasciato lì tutta la sera, forse tutta la notte, se il destino non avesse deciso diversamente.
Il destino o la piccola carogna brunastra.
Perché la storia era troppo bella per raccontarla ad una persona sola. E quello che era successo dopo la storia era troppo bello perché rimanesse patrimonio di sole tre persone.
La cavalleria sarmata.
Non doveva essere passato molto tempo dalla carcerazione che la terra cominciò a tremare, il vento s’alzò d’improvviso, il sole si obnubilò quasi completamente ed un’ombra corposa si palesò dal pianerottolo che collegava il secondo piano della casa alle scale che portavano all’aia.
“Chi t’ha legato, povero figlio mio?”.
L’ombra si consustanziò nella sua versione fisica e Nonna Rosa si scaraventò giù dalle scale, in pochi secondi raccolse i vimini lasciati a terra da mio nonno e si lanciò verso il figlio che preso alla sprovvista, si girò, piegò leggermente le gambe e allargò le braccia come fa un pistolero pronto a scaricare la sua pistola sul suo avversario, ma invece di affrontare l’avveniente, cominciò a correre verso la strada.
Immaginatevi un quarantenne scappare come un bambinetto di fronte ad una sessantenne furiosa a cui era stato toccato il nipote.
Mio padre racconta che Nonna Rosa desistette solo dopo che mio nonno sparì nel bosco. Tornò indietro e cominciò a togliere i vincoli al povero nipotino. “Che t’ha fatto quel delinquente? Ma come si fa a trattare così un povero cocco? Che non tornasse a casa fino a stasera!”
Nel frattempo, la storia era diventata di dominio pubblico e mia nonna, e gli altri due miei zii, dopo un iniziale doverosa preoccupazione dovuta alla perdita del pecus e della pecunia, commentavano con ridolini e occhiate malcelate la rincorsa da mezzofondista di Nonna Rosa e la figura ingloriosa del figlio.
Pace fu.
Il tutto finì a sera inoltrata. Mio nonno tornò a testa bassa e si fece cena in uno strano clima di tensione divertita.
È ovvio che mio nonno, che normalmente si tirava sulle spalle basti da un quintale e zappava are di terra senza fare una piega, avrebbe potuto fermare la madre anche solo standosene fermo, ritto di fronte a lei. Ciò che lo tenne lontano dal farlo era quel senso di rispetto per un’autorità che visti i fatti ci sembrerebbe un’assurdità. In realtà, il danno causato da mio zio era parte di quella quota di disgrazie che una famiglia può sopportare per crescere. Mio zio non s’azzardò più a fare quello che aveva fatto e quella vicenda dette un po’ di brio a delle esistenze che non avevano molte occasioni per divagarsi.
I membri della famiglia non coinvolti nel fattaccio continuarono a ridacchiare per giorni mimando i protagonisti della vicenda, ma guardandosi bene da farlo in loro presenza. Mio padre racconta che nei giorni successivi Nonna Rosa spuntava ogni volta che mio nonno e mio zio si trovavano a poca distanza l’uno dall’altro. Tanto per far capire che la prossima volta non avrebbe scherzato e ricordare chi comandava dentro (e fuori) quella casa.
E la pecora?
Chi se l’era passata peggio di tutti (leggasi, la pecora), fu individuata la sera stessa, anche se ormai era buio pesto, perché in montagna non si può abbandonare un animale morto anche solo per poche ore: finirebbe nelle pance dei lupi. Alda fu caricata su una slitta e trasportata a braccia verso casa. Dopo essere stata ben ripulita ed fatta a pezzi, finì dentro una ‘callàra’, cioè un calderone che si metteva sul fuoco, nel camino.
Nell’aia fu attrezzato uno spazio e acceso un fuoco, la callàra fu posta sopra e dopo aver riposato tra erbe aromatiche e vino bianco ed essere stata cotta per parecchie ore andò a riempire pance che non erano quelle dei lupi.
Questo modo di cuocere la pecora era quello tipico dei pastori di queste zone, quando, durante la transumanza qualche vecchio esemplare si azzoppava o crollava per la troppa stanchezza: la pelle finiva a scaldare le notti all’addiaccio, e la carne a scaldare chi dormiva sotto la pelle. A quei tempi tutto quello che la natura ti dava tornava a circolare nello stesso ambiente da cui era nato.
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