“Lati che?”

“Lati che?”

Il ‘miracolo’ veniva raccontato normalmente nei periodi di festa, quando il vino cominciava a salire di quantità. Quel giorno non l’avrei tirata fuori la storia del latte di Cucca, c’avevo studiato sopra ma ero fisso sulle olive all’ascolana che erano arrivate a tavolo in quel momento. Non ricordo neanche da dove venne fuori il ‘gancio’.

“Carlo t’ha raccontato che il miracolo di nonna Rosa non è un miracolo? Racconti sempre un sacco di cavolate…” fece qualcuno in fondo al tavolo, forse mio fratello, rivolto a mio padre. “Dice che è stato latirismo…”. 

Una provocazione, buttata lì per farsi un a risata. Che vuoi che sia un provocazione in un giorno di festa, quando pancia e testa sono pieni di voglia di vivere e giocare? Niente, se non sei mio padre.

“Lati che?” L’occhiataccia si spostò lentamente dal fondo del tavolo verso di me.

“Latirismo… sarebbe…”

Allora, un attimo… prendiamola dall’inizio.

La ‘leggenda’ era più o meno questa. Mio padre raccontava che sua nonna Rosa D’Angelo, ormai avanti con gli anni, aveva perduto l’uso delle gambe. La situazione si era progressivamente aggravata intorno ai 70 anni di età (Rosa doveva essere nata intorno agli anni ‘70 del 1800) e dopo qualche anno quella strana malattia l’aveva costretta a letto. Le sue condizioni di salute erano ottime, ma le gambe non andavano più, ferme, morte. Mia nonna, sua nuora, aveva cominciato ad accudirla visto che all’inizio, prima della paralisi totale, Rosa aveva bisogno di sostegno per fare qualsiasi cosa. Sempre secondo la leggenda, la principale medicina furono tazzoni di latte di Cucca (che forse conoscete, vi ho raccontato qualcosa qui), una capra con una testa dura come il calcare che rivestiva il monte di fronte alla casa, acquistata proprio negli anni in cui Rosa cominciava ad ammalarsi.

La leggenda continua dicendo che Rosa fu accudita da mia nonna per 7 lunghi anni, poi, ad un certo punto, si rimise in piedi e tornò lentamente a fare quello che faceva prima. Morì quando aveva superato abbondantemente i 90 anni, quindi trascorse 20 anni dopo essersi rialzata dal letto.

In famiglia tutti attribuirono il miracolo al latte di Cucca. Certo, non c’erano certezze scientifiche, non è che dei medici potevano salirsene a  700 m di altitudine, in mezzo a macchie e lupi a metà del secolo scorso con una nazione in piena guerra o passata poco oltre, dove la penicillina era praticamente sconosciuta. Sì, in ospedale avevano provato a trascinarcela, su di un carro, per riportarla subito a casa:”S’è paralizzata, non avrà vita lunga.” Diagnosi e prognosi, tutto in 5 minuti, mica come adesso che ci mettono giorni. Come vi ho raccontato, Rosa che era una specie di quercia non priva di una certa gentile finezza (la leggenda, a dire il vero, usa altre parole: dice che tirava delle tortorate da kurgan ai figli, anche quarantenni, ma era capace di carezze e sguardi dolcissimi nei confronti dei nipoti) non fu per nulla d’accordo.

Miracolo! Finché…

Insomma, Cucca aveva fatto il miracolo. E così bisognava tramandare la leggenda. Finché…

Ecco, quel ‘finché’ ero io che, per quanto amassi i racconti di un tempo, ero sempre pronto a discuterne la genesi. Mi ricordavo che agli inizi del secolo scorso nel regime alimentare di molta gente di montagna un posto tutto suo lo aveva la cicerchia. È un legume che ormai nessuno conosce, nessuno lo coltiva più e fate fatica a trovarlo anche al supermercato. Collegai la faccenda a qualcosa che avevo letto sull’azione a livello neurologico di alcune neurotossine che erano contenute al suo interno e m’era venuta fuori la storia della paralisi degli arti interiori. Chiesi a mio padre se in famiglia la mangiassero, la cicerchia, ma niente… mangiavano praticamente qualsiasi tipo di legume e cereale… piselli, ceci, fagioli di tutti i tipi, saravolla (che poi sarebbe il saragolla, un grano incredibile, che addirittura il correttore mi segna ‘rosso’, non sa neanche lui che roba sia), castagne, fava, e un’altra dozzina di alimenti (tra cui non c’era il farro, ad esempio, “che veniva dato solo alle ‘bestie’…” diceva la leggenda, che evidentemente era abituata troppo bene). Niente… non poteva essere la cicerchia. 

Poi il colpo di genio. “Questa roba qui la conosci?”. E feci vedere a mio padre la foto della cicerchia secca, dei fiori e della pianta. “Be’, certo… questa è veccia, questa sì che si mangiava…”.

Se le cose non le sai…

Venne fuori che la cicerchia era un legume che consumavano in ogni modo. Veniva macinata e messa nella farina per fare il pane, oppure ci facevano minestroni di tutti i tipi e zuppe a non finire. La mangiavano perché non avevano acqua per irrigare i campi e quella piovana che recuperavano in bacini di raccolta o quella che si scioglieva dalla neve in primavera, serviva per bere o dare da bere alle ‘bestie’. La cicerchia non  temeva la siccità, cresceva praticamente dappertutto e potevi anche usarla come foraggio. Solo che non la chiamavano cicerchia, tutto qua.

Non dissi niente a mio padre. Innanzitutto perché non sono sicuro che la causa della malattia della mia bisnonna fosse il latirismo. E poi perché la leggenda di Cucca era troppo bella e niente aggiungeva alla storia di una donna di 70 anni che dopo 7 anni di paralisi era tornata a rialzarsi da un letto come niente fosse. Per me poteva essere stato anche il latte di quella carogna pezzata di macchie bianche e nere, non sarebbe cambiato nulla.

Più tardi provai a spiegare a mio padre la storia del latirismo, ma la leggenda è leggenda: è più interessante della Scienza e si racconta più facilmente.

Un Ponte per la Pace

Un Ponte per la Pace

Giochi di carte proibiti.

Parlare di Pace di questi tempi è un po’ complesso o forse troppo semplice. Ad eccezione di qualche psicolabile, tutti vorremmo in un mondo tranquillo, dove i conflitti fossero gestiti in maniera civile. Il problema è il prezzo da pagare per avere quale tipo di pace. In ogni caso, qualsiasi occasione che permetta di confrontarsi su una questione come questa, va bene: parlarne, è meglio che starsene in silenzio.

Il prossimo 22 aprile, in occasione dell’Earth Day 2022 proprio qui sotto al Ponte ci sarà una giornata di confronto organizzata da Maurizio Bargiacchi, proprio su questa questione; e spero che l’influenza benevola del Ponte, un ponte che per una volta non è stato creato dall’uomo e che quindi l’uomo farebbe fatica a distruggere, serva ad accrescere la consapevolezza che la Pace, per sua stessa natura, è un concetto un po’ complesso anche se di per sé molto semplice.

La gallina ritrovata e il muratore acculturato.

La gallina ritrovata e il muratore acculturato.

Armistizio Roccafluvione

Di questi tempi, di cose da fare ne ho. Ma un’oretta, quando posso la passo a rovistare tra la montagna di carta quasi polverizzata dal tempo, conservata dentro qualche cassetto nella Casa sul Ponte. E se ne trovano di cose strane.

L’immagine di copertina di questo post è una di queste. Si tratta del Protocollo del Comando Manipolare del Comune di Roccafluvione degli anni 1928-1931 che aveva proprio la sede in una casa di fronte al Ponte. Ora, come fa a stare qui? Ci sta perché mio nonno, dopo poco più di 20 anni di servizio nei Reali Carabinieri di Sua Maestà ‘Sciaboletta’, se ne era ritornato al paesello e da buon pensionato dello Stato, a 39 anni (leggasi ‘trentanove’) invece di mettersi a guardare un cantiere, si infilava in tutte le attività socio-politico-religiose che riusciva a trovare. Vi anticipo: era un baby-pensionato, certo, ma di quelli che s’era beccato un paio di terremoti in Calabria, quello devastante di Messina nel 1908, l’eruzione del Vesuvio del 1906 (che fu la peggiore del secolo scorso – causò centinaia di morti), oltre ad essersi fatto un paio di anni di fronte nella Grande Guerra, con un paio d’occasioni in cui aveva anche rischiato di lasciarci la pelle.. Insomma, un baby-pensionato di quelli ‘seri’. Al suo ritorno al paese, nel 1923 non poteva stare a girarsi i pollici:  quindi, tra le altre cose, aveva aperto una produzione di bibite, era diventato Presidente della locale Associazione dei Cacciatori, s’era messo a coltivare patate, pomodori e zafferano, e… era diventato capo del locale Manipolo della Milizia, di cui s’era fatto piazzare la sede vicino casa, per non fare troppa strada (si sa , a 40 anni, cominciano i primi acciacchi).

Il Protocollo: uno spaccato di Piccola Grande Storia.

Questo quadernone è l’unico che ho trovato, forse perché solo in quegli anni mio nonno è stato a capo del Manipolo o forse perché gli altri quadernoni sono andati perduti. Fatto sta che nel centinaio di pagine di cui è composto il quadernone, si trova un po’ di tutto, comprese alcune storie che ben inquadrano la vita dell’Italia di paese del ventennio. Quella della gallina e dell’offesa al Duce, ad esempio, sono emblematiche. Qui in fondo trovate gli scatti che ho fatto. Non ho cancellato i nomi perché si tratta di storie i cui protagonisti hanno lasciato questo mondo da molti decenni, oltre al fatto che non mi stupirei se le colpe che sono state loro attribuite fossero prive di qualsiasi fondamento, a parte la follia della regola da cui queste colpe scaturivano.

La gallina trafugata e ritrovata.

Comunque, dalla nota, pare certo che una gallina fosse stata trafugata e il colpevole sbattuto in galera: il rapporto non da adito a dubbi. I militi che con solerzia procedettero all’arresto, effettuarono così accurate indagini che già il giorno dopo il furto, avvenuto intorno alle 20:00 del 25 settembre 1928, il pericoloso furfante di anni 68 (che probabilmente aveva lo stomaco vuoto) era già nelle locali carceri a scontare la pena. Mi vedo davanti la scena dal Pinocchio di Comencini con il giudice Vittorio De Sica e il suo copricapo nero funereo, assistito da paffuti RR. CC. con pennacchio di ordinanza, che indica la porta della cella.

 Il muratore tradito.

Ma ci sono altri episodi che fanno meno ridere tipo quello che muratore ascolano a cui non è stata risparmiata la sua frase poco riguardevole nei confronti di S. E. il DVCE. Qualche solerte e militante contadino a cui l’apprezzamento nei confronti del Capo del Governo non era piaciuta, aveva fatto il suo bell’atto di delazione; o magari aveva subito un torto dal muratore e trovato la maniera migliore per fargliela pagare. Risultato: 6 mesi di reclusione, 600 lire di multa e spese processuali da pagare, solo per quel:”Abbasso Mussolini, quel carbonaio figlio di brigante”. Una frase più da docente universitario che da muratore marchigiano: il che fa già immaginare come davvero fossero andate le cose.