Quella sassata di 106 anni fa.

Quella sassata di 106 anni fa.

Nella settimana tra il 7 e 14 giugno del 1914, Ancona fece da detonatore alla Settimana Rossa, uno dei momenti storici più importanti degli inizi del secolo scorso.

Fu una settimana di sangue e di fuoco, la cui scintilla fu causata dall’uccisione da parte dei Carabinieri di tre giovani che uscivano dalla riunione di anarchici, socialisti e repubblicani della Villa Rossa. I fatti sono storia, basta cercare sul web. Riassumendo, per molte settimane la rivolta si allargò a tutta Italia, con agitazioni e scioperi soprattutto nelle Marche e in Emilia Romagna. I disordini furono tali che si fu davvero sull’orlo di una insurrezione generale, con il paese a cavallo tra una guerra, in Libia, che era ufficialmente terminata ma che non lo era poi completamente; ed un’altra, questa forse più terrificante – se l’orrore di una guerra si potesse graduare, di cui si stavano per sentire i primi colpi. Che cosa c’entrano i moti rivoluzionari della Settimana Rossa con una casa di tufo costruita 20 anni dopo in mezzo alle montagne dell’ascolano? C’entrano il pezzo di carta che vedete in cima a questo post.

Come ogni serio moto rivoluzionario, il bersaglio principale era l’ordine costituito che all’epoca faceva rima con preti e carabinieri.  

Nel giugno del 1914 mio nonno aveva da poco compiuto 30 anni ed era stato trasferito da circa 3 mesi dall’Abruzzo alla Legione Carabinieri di Ancona. Uno dei principali compiti affidati ai Carabinieri, oltre a quello non proprio encomiabile di prendere a manganellate e pistolettate anarchici e socialisti, era quello di proteggere coloro che partecipavano alle funzioni religiose perché i disordini, già prima del giugno di quell’anno, si stavano espandendo anche ai luoghi di  culto. 

Mio nonno fu inviato in una frazione di Ancona, che si chiama Pinocchio, proprio ad evitare che gruppi ‘di giovinastri’ disturbassero le funzioni religiose. Fu lì, come c’è scritto nel verbale che trovate qui a fianco, che qualcuno dei giovinastri pensò bene di tirare una bella sassata a mio nonno. 

Poteva essere un’altra chiesa, in una qualsiasi altra località di Marche o di Abruzzo ma fu proprio la Chiesa di San Michele Arcangelo, nel quartiere Pinocchio di Ancona. In quel quartiere, 54 anni dopo, mio padre prese in affitto una casa e in quella Chiesa fui battezzato l’anno successivo; e non c’era alcun motivo per cui decine di anni dopo mi trovassi a passare negli stessi luoghi dove era passato per un solo attimo, per caso, mio nonno, lasciandone una traccia. 

Certo, che prendere un encomio per una sassata…vabbè, va… 

“Quei poveri figli miei…”

“Quei poveri figli miei…”

Il passato che ci è stato raccontato, si sa, è pieno di episodi rimarchevoli, di sentimenti elevati e gesti nobili. Sentite allora questa storia.

Il periodo storico non è troppo preciso e malgrado qualche ricerca non sono riuscito a trovare molto; siamo comunque tra il 1943 e il 1944, con Wehrmacht e SS a spasso per il Centro e il Nord Italia e Alleati che stanno aggrappandosi ad una mezza dozzina di lembi di terra al Sud.

Mio padre raccontava che una sera di primavera s’erano presentati tre uomini nell’aia di casa. Male in arnese e ridotti all’osso cercavano da mangiare. Parlavano poche parole d’italiano e appena gli venne dato del pane si andarono a nascondere nel bosco di fronte a casa.

Rimasero lì per qualche giorno, a casa aumentarono le razioni dei pasti e a turno andavano nel bosco a portare le loro. Poi un giorno, uno dei tre, in un italiano smangiucchiato chiese:”Noi, lavoro, per pane; no lavoro no pane”.

All’offerta, mio nonno non seppe dire di no. Con uno dei miei zii disperso in qualche campo di concentramento tedesco e l’altro che lavorava a tratti, sempre sul ‘chi va là’, per non esse scoperto da qualche federale e deportato, sei braccia, anche se malnutrite erano un tesoro.

I tre cominciarono a lavorare a turno, in una parte della proprietà sorvegliata da mio padre, anche se di federali o tedeschi non se ne erano mai visti, lassù, a 800 metri. Erano aviatori inglesi, raccontava mio padre, penso fuggiti da qualche campo di prigionia, magari da quello di Servigliano, e arrivati fino a lì nella speranza che il fronte li attraversasse.

Gli unici a conoscenza della presenza dei tre stranieri erano quelli della nostra famiglia; e i vicini che li vedevano lavorare la terra insieme ai miei. 

Di notte i tre dormivano in una baracca nei campi: fu lì che una notte, una decina tra federali ed SS vennero a prenderli.

Ci mancò poco che anche i miei non finissero nei guai; guai da cui fu chiaro chi fossero stati causati.

La vicina di casa, invidiosa del lavoro molto redditizio e pagato a poco prezzo, aveva informato la milizia della presenza dei tre.

Quello che successe dopo veniva raccontato da mio padre con approssimazione. Sembra che i tre fossero stati legati su un ponte ad Ascoli Piceno, gli fossero stati cavati gli occhi e lasciati morire lì; come ho scritto non ho trovato riscontri a questa conclusione: 

Di certo, nessuno a casa di mio padre, rivolse più la parola ai loro vicini e con loro cessò ogni rapporto.

Mio padre racconta che ogni volta che si parlava di quelle giornate mia nonna ripeteva:”Quei poveri figli miei!”.  Proprio vero che per le madri, non esistono uomini, ma solo figli.

“Cercavate me?“

“Cercavate me?“

Mio zio ne aveva combinata un’altra delle sue, Cucca non si trovava più. Era rimasto un solo altro posto dove cercarla, ma nessuno s’azzardava neanche a pensare potesse essere là. Era come quando sapevi che era successo qualcosa che non doveva succedere ma te ne nascondevi l’esito e speravi che da un momento all’altro arrivasse una smentita all’ineluttabile. Mio nonno, invece, era tutto meno che attendista. “Secondo!”, lo sentì urlare mio padre mentre usciva dalla stalla; “Cucca? Dove sta Cucca?”. “È scappata, papà. Non si trova, sai come fa. Mi sono girato un attimo per raccogliere gli attrezzi ed è sparita. Non so dove sia finita”, fece mio zio quasi indispettito, cercando di giustificare l’ingiustificabile. “Lo so io dove è finita!” Urlò mio nonno..“lo so io dove è finita!”. ripetè mentre correva verso il confine. Sì, era finita proprio dove tutti sapevamo che sarebbe finita, e cioè nell’unico posto dove non sarebbe mai dovuta finire.

“Questa bestiaccia, riprendetevi questa bestiaccia” fece una voce pesante e lontana, mentre Cucca, trotterellante e serafica, risaliva l’avvallamento che separava il terreno di mio nonno dal quello del nostro vicino. “La volete tenere legata oppure no?”.

Cucca era una capra, anzi era la quintessenza della capritudine. Ignorante, impassibile e completamente disinteressata a qualsiasi cosa succedesse intorno a lei, era programmata per fare quello che doveva fare, che al momento, data la sua gravidanza avanzata era quella di saccheggiare il campo di avena del vicino che non è che fosse così felice di vedere quel piccolo aratro nano pezzato che ripuliva ad alzo zero il suo campo d’avena.

Cucca non era indisciplinata, anzi; ma si incuneava nelle pieghe delle regole che le erano state date. Nel caso di specie, la regola era che finché qualcuno la osservasse, lei non doveva allontanarsi oltre il confine. In realtà, qualcuno la osservava proprio perché lei aveva l’abitudine di sconfinare nello stupendo campo di stupenda avena del vicino, ma questa è un’altra storia. Insomma, finché ti sentiva gli occhi addosso, faceva il periplo della proprietà, voltandosi, ogni tanto, per vedere se eri attento; ma se esitavi ad incrociare il suo sguardo, eri fatto. In poche parole, era lei che controllava te, non il contrario: bloccarla, impossibile con buona pace di mio nonno che accusava una volta mio zio, un’altra mio padre di essere poco ligi al dovere.

“Vi faccio vedere io come dovete fare” pontificò mio nonno. “Guardate.”

Spinse Cucca correndole dietro fino all’aia di casa poi la fissò, indicò il confine e le disse:”Sai che la terra dove puoi stare è fino a lì: oltre quel gomito di terra, non puoi andare.” E si mise nuovamente a sistemare il covone di erba medica, non tralasciando di voltarsi ogni tanto verso l’impunita, che, ovviamente si dimostrava più obbediente del più obbediente dei bambini obbedienti.

“Visto?” fece mio nonno rivolto a mio zio e a mio padre. “Basta uno sguardo ogni tanto, non dovete sempre starle con  gli occhi addosso…imparate!”

Fu in quel momento che la genialità brigantesca di mio zio raggiunse una delle vette più elevate. “Papà” fece mentre si avvicinava lentamente facendo sporgere dal pacchetto di Nazionali una sigaretta. ”…una Nazionale?”. Mio nonno che stravedeva per le Nazionali, di solito le sigarette se le faceva con le cartine, mollò il fieno che aveva in mano e avvicinò la mano al pacchetto. Mio zio gli accese la sigaretta ma mio nonno non arrivò a tirare la prima boccata. “Allora! Questa bestiaccia è ancora qui? Feliiiiiceeeee!” Fu un attimo, che mio padre raccontava ancora qualche mese prima di morire; lui e mio zio piegati in due dal ridere e mio nonno il cui viso acquisiva varie tonalità di colore tra il rosso e il verde.

Qualche decina di metri più in là, Cucca, che veniva loro incontro trotterellando con il suo bel carico di avena in bocca che spostava da una guancia all’altra mentre lo triturava e quel muso che sembrava dire:”Successo qualcosa? Cercavate me?

“Non andate a lavorare.”

“Non andate a lavorare.”

Mia nonna ripeteva che le sue figlie non avrebbero mai dovuto lavorare. Non che fosse una fascista reazionaria, tutt’altro; è che proprio non ce la faceva più. 7 figli (4 non erano neanche i suoi, ma li aveva ereditati dal precedente matrimonio di mio nonno), una casa da mandare avanti e soprattutto il lavoro che consisteva in qualche decina di bambini di età variabile tra i 6 e i 12 anni, alcuni delle vere e proprie canaglie, tutti lontani da qualsiasi cosa possa assomigliare a degli scolari modello.

Riuniti in una sola classe, una mattinata a scuola doveva essere piuttosto stressante per una giovane maestra di una trentina d’anni che si doveva inventare una decina di lezioni differenti ogni gorno. Guardate questa foto, sarà di metà degli anni ’30, una di quelle foto che si fa una volta l’anno e che vi deve vedere sorridenti e in tiro, a manifestare le ‘magnifiche sorti e progressive’ del genere umano: qualche bimbo abbozza un sorriso, un sorriso che certo non traspare sul volto di mia nonna.

La scuola si trovava in una zona a poche centinaia di metri da Ponte Nativo, sulla strada che va verso la frazione di Casacagnano, nel’edificio che adesso ospita un B&B, che porta il nome della scuola, Villa Filetta.

Finita la scuola, si tornava a casa e c’era un’altra sfilza di bambini tra i 2 e i 15 anni da accudire. per fortuna, i primi nati davano una mano, fin da molto piccoli, ognuno doveva fare il suo e prendersi cura dei più piccoli; funzionava così in ogni casa, che fosse la casa di pietra e legna di poveri mezzadri o quella meno modesta del sindaco: l’unica differenza era che il sindaco poteva avere disponibilità di qualche soldo, con i quali c’era davvero poco da comprare di quello che serviva davvero.

Mia madre raccontava che mia nonna finiva le giornate letteralmente prostrata. “Non dovete studiare, trovate un uomo buono e fatevi una famiglia, altrimenti farete la mia stessa fine.” ripeteva  alle due piccole del gruppo, che fecero come mia nonna disse loro di fare; ma che la sera andavano a dormire sfibrate nè più ne meno di quanto non finisse la loro madre.